I palliativi politici per la sanità regionale pubblica
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(Danilo Stentella, © 2022)

Nell’Italietta delle autonomie differenziate, che certi personaggi della nuova sinistra radical chic ormai privi di qualsiasi capacità di visione hanno maldestramente sottratto all’iniziativa leghista, prosegue inesorabilmente l’imbroglio della realizzazione del programma eversivo della loggia massonica P2. Tra le cose già fatte la riduzione del numero dei parlamentari, tra quelle di prossima realizzazione la separazione delle carriere dei magistrati, tra quelle tentate la soppressione delle province e del CNEL e la dissoluzione della RAI[1], a titolo di esempio. Al punto 2 di quel piano si legge “Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico finanziario”.

Giacché mi pare persino inutile discutere dei partiti politici, per una serie di motivi che ritengo siano evidenti alla maggior parte delle persone informate, vorrei tentare un approfondimento sul naturale rimpiazzo funzionale del partito, il sindacato, e del suo particolarissimo ruolo nella tutela del diritto alla salute, garantito dalla nostra Costituzione. O meglio il diritto che dovrebbe tutelare.

Perché a onor del vero i sindacati, chi più chi meno, abbaiano alla politica a proposito di sanità, ma come il cane alla catena, tanto per far vedere al padrone che fa un po’ di guardia, e che in fondo una ciotola di avanzi se li merita anche lui. Siamo realisti, i sindacati non hanno fatto nulla per impedire la lenta e inesorabile demolizione del sistema sanitario pubblico. Prima non si sono efficacemente messi di traverso quando con la scellerata riforma del Titolo V della Costituzione la sanità da nazionale è diventata regionale, poi hanno alzato al massimo un po’ di polverone quando i governi, tutti, hanno realizzato tagli alla spesa per la sanità pubblica, quindi sono stati in silenzio quando è aumentata la quota di risorse pubbliche da destinarsi alla sanità privata convenzionata, infine, ciliegina su questa torta avvelenata, hanno addirittura salutato con gioia la partecipazione a fondi sanitari privati e alle “prestazioni integrative”, benedicendo, invece di avversarlo, il dispositivo del D.Lvo 229/1999 che aveva introdotto i fondi sanitari integrativi. E non ricordo che qualche rappresentante si sia incatenato davanti alla sede del Governo quando con il Decreto Sacconi del 27 ottobre 2009 sono stati introdotti i fondi sanitari divisi per enti, casse e società di mutuo soccorso (art. 51, c. 2, lettera a TUIR), e fondi sanitari integrativi (art. 10, c. 1, lettera e-ter TUIR). Con analoga entusiastica reazione quasi tutti avevano scodinzolato alla precarizzazione del lavoro.

Oggi saltuariamente il sindacato si solleva dal sacello nel quale si sta decomponendo ma non riesce nemmeno più ad abbaiare in modo credibile, figuriamoci mordere, mentre il sistema sta tornando indietro di circa 45 anni, quando c’erano le mutue, la sanità per i ricchi e quella per i poveri, gli ambulatori patinati e le macellerie, e alcuni fondi integrativi sanitari privati, ormai consolidati nelle loro posizioni di mercato, dopo avere fatto cassa per anni, comunicano ai lavoratori la riduzione delle prestazioni. Presto ammalarsi significherà anche cadere in povertà.

Questo, grosso modo, il contesto che io vedo, da cittadino e da sindacalista. E quindi mi chiedo: il sindacato può limitare la propria azione alla sola tutela di bottega dei desiderata di questo o quell’iscritto, senza correre il rischio di decadere in una inutile autoreferenzialità? Si rendono conto i dirigenti sindacali della diminuzione delle “vocazioni” e delle tessere e che presto saranno generali di un esercito inesistente?

Sul cosa avrebbero dovuto fare nel passato ho pochi dubbi: invece di andare periodicamente a palazzo a mangiare le brioches del potente di turno, per poi rilasciare le solite noiose dichiarazioni ai giornalisti sul portone, all’uscita, avrebbero dovuto incatenarsi davanti al quel portone e chiedere passi indietro ai Governi.

Circa il cosa potrebbero e dovrebbero fare adesso e domani: dovrebbero chiedere alla politica, al potere legislativo più precisamente, una riforma del sistema sanitario, che lo riporti almeno a quella dimensione disegnata con la legge 833/1978 e la ricostituzione del Servizio Sanitario Nazionale; richiedere progressivi tagli sostanziali alle prestazioni private in convenzione, al fine di mettere a disposizione del sistema pubblico tutti i fondi di cui ha bisogno, con urgenza; attraverso le persone che il sindacato nomina nel CNEL in rappresentanza di interessi collettivi potrebbe esercitare indirettamente il diritto costituzionalmente garantito di proposta legislativa (art. 71 Costituzione).

Il sistema sanitario pubblico ha bisogno di riaprire immediatamente i plessi ospedalieri inspiegabilmente chiusi negli ultimi anni, di assumere personale infermieristico e ausiliario, di definire il reale fabbisogno di medici e di specializzati e programmarne l’assunzione, di rivedere l’assistenza territoriale. Lo stesso numero chiuso per l’accesso alle facoltà di medicina probabilmente non ha più alcun senso, ammesso che ne abbia mai avuto.

Ritengo senz’altro offensivo ricorrere ancora all’argomento ormai inflazionato della mancanza di risorse finanziarie, perché oltre a essere male impiegate nelle prestazioni private convenzionate quelle risorse si possono trovare anche nelle pieghe della spesa sbagliata, ad esempio in armamenti, non costruendo portaerei che all’Italia non servono a nulla, mica siamo una potenza imperialista, lo stivale è già di suo una portaerei, almeno per quanto necessita alla difesa, non partecipando a malcelate missioni di guerra per tutelare gli interessi geopolitici di altri paesi, mascherandole quasi sempre sotto la più presentabile patina delle missioni di peacekeeping e non inviando armi su teatri di guerra.

Non sarà la politica a rispondere a questi bisogni, senza una spinta, uno spintone, dal basso, in quanto non esiste da troppi anni alcuna forma di opposizione credibile, né alcuna forma di politica credibile. Questa cosa forse potrebbe farla il sindacato, con quel poco di anelito vitale che gli resta, prima di morire, anche lui, con disonore.

Non serve a nulla organizzare ogni tanto qualche decina di pullman per riempire una festante piazza romana con un po’ di lavoratori e tanti pensionati, non è più tempo del discorso conciliante del pingue segretario che dice sempre le stesse due cose senza senso, sempre con la stessa anacronistica oratoria. Quei segretari, quei dirigenti sindacali per primi dovrebbero attuare forme di protesta portando la propria persona sotto i palazzi, non dentro, non su quei comodi e lussuosi divani trapuntati, ma sui marciapiedi, in modo composto e determinato, per mesi se servisse. Davanti ai palazzi. Come dicono più prosaicamente i militari, è tempo di mettere gli stivali sul terreno, se non ne sono capaci o non ne hanno il coraggio potrebbero più dignitosamente fare spazio, perché ormai dalle poltrone non si risolve più nulla. È il momento di “passare dalla preghiera all’impegno sociale” (Giorgio La Pira, 1945)[2].


[1] Cfr., Testo Integrale del Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2, documento sequestrato a M. Grazia Gelli nel luglio 1982 , sezione Procedimenti, punto 2

[2] Cfr., Giorgio La Pira, La nostra vocazione sociale, 1945.