La Democrazia Cristiana nel 1951
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Dal partito del 18 aprile 1948 al “partito pesante” La Democrazia Cristiana nel 1951

di Agostino Giovagnoli
(Da: http://www.insmli.it/pubblicazioni/1/giov_227.pdf)


Dossettiani contro Pella
 
Nel maggio 1950, dopo le dimissioni di Paolo Emilio Taviani da segretario del partito, favorita da Attilio Piccioni, si formò nella DC una Direzione di “concentrazione” sotto la guida di Guido Gonella, che cercò di superare la spaccatura, emersa al congresso di Venezia del 1949, tra Alcide De Gasperi e la maggioranza del partito, da una parte, e i dossettiani dall’altra1. Ma dal giugno 1950, la situazione fu soprattutto condizionata dalle conseguenze, sia sulla politica estera sia su quella interna, della guerra di Corea2. Malgrado alcune divergenze, per qualche mese il segretario Gonella e il vicesegretario Giuseppe Dossetti lavorarono insieme, spingendo il governo ad assumere iniziative importanti, come quelle riguardanti la Cassa per il Mezzogiorno e la Riforma Agraria. A partire dall’inizio del 1951, invece, emersero contrasti e divisioni che avrebbero portato alle dimissioni della Direzione.
Nel Consiglio Nazionale che si aprì il 14 gennaio 1951, Gonella ribadì soprattutto la ferma posizione anticomunista della DC sulle questioni internazionali3, ma in quella sede emersero anche alcuni malumori del mondo cattolico sulla politica estera del governo4. In politica interna, oltre a una più forte contrapposizione tra le forze di governo e le sinistre, tra le conseguenze della guerra ci fu anche l’introduzione di un indirizzo dirigistico di politica economica, che suscitò molteplici opposizioni all’interno della DC, in seno agli organi di partito e nei gruppi parlamentari5. Nel dicembre 1950 venne formulato un progetto di legge delega per dare al governo maggiore libertà d’azione in materia economica. Anche il gruppo dossettiano sostenne tale indirizzo, motivato dalla difficile contingenza internazionale e dall’esigenza di rafforzare la difesa del paese, nella speranza di avviare una più incisiva politica riformatrice in campo economico e sociale. In seguito, invece, su questo terreno sarebbe maturato un contrasto tra il segretario Gonella e il vicesegretario Dossetti. Già nella rie della Direzione democristiana del 9 gennaio 1951, infatti, Dossetti definì soddisfacente la proposta di Giuseppe Pella, sia dal lato tecnico sia da quello politico, ma osservò che nel progetto di delega non si faceva cenno alla materia fiscale: egli non muoveva alcuna obiezione riguardo allo strumento prescelto, la delega al governo, ma poneva problemi sull’uso che ne sarebbe stato fatto6.
Nel successivo Consiglio Nazionale, Giorgio La Pira sollevò un interrogativo: “Qual è il peso reale dell’Italia nell’attuale situazione internazionale?”, ricordando che non esistevano solo il “peso” politico e quello militare ma anche altri “pesi” di tipo alimentare, sociale, culturale, religioso… Nella lotta tra comunismo e anticomunismo, sottolineò La Pira, non influivano solo gli aspetti più immediatamente militari e politici, ma anche molti altri elementi, che andavano dalle condizioni di vita di milioni di persone ancora afflitte da gravi problemi di povertà alle motivazioni ideali e religiose di quella battaglia di civiltà. I problemi posti da La Pira vennero ripresi da Amintore Fanfani, il quale osservò che “non è stato fatto nel settore economico e in quello sociale quello che […] [a suo avviso è] necessario per far marciare il nostro dispositivo di difesa militare”. Il dibattito in Consiglio nazionale non produsse un chiarimento definitivo: il carattere “unitario” della Direzione, in cui erano presenti tutte le tendenze e dove pertanto si svolgevano le discussioni più importanti, svuotava il Consiglio nazionale della sua abituale funzione di sede principale del dibattito politico interno al partito. Sulla legge di delega al governo in materia economica, venne respinto un emendamento di Giuseppe Lazzati per introdurre “garanzie”, cioè per vincolare la delega a un determinato uso, ma tale voto non sciolse tutti i dubbi7.
Nella successiva Direzione del 24 gennaio, Gonella affermò che Direzione e Consiglio Nazionale avevano approvato i termini della delega esposti da Pella, ma vari membri della Direzione non concordarono con questa interpretazione8. Dossetti ribadì la posizione espressa il 9 gennaio, sottolineando l’esigenza di “chiarire che l’uso della delega non [avrebbe dovuto essere] solo il blocco dei salari e dei prezzi9. Non era cioè sufficiente approvare la delega al governo, era anche necessario entrare nel merito dell’uso che ne sarebbe stato fatto, altrimenti la delega si sarebbe trasformata in un atto di “fiducia totale e globale al governo che non si [sentiva] di dare”: “il partito non può essere né un puntello né un megafono del governo. Su questo punto […] sono molto fermo10. Al fondo della posizione di Dossetti, c’era una concezione esigente del rapporto tra partito e governo – in questo senso egli distingueva nettamente tra Direzione del partito e gruppo parlamentare -, tanto da mettere chiaramente sul tappeto la questione, se non di una crisi, almeno di un rimpasto: non bastava un maggior coordinamento nell’esecutivo, come proposto più volte da De Gasperi, occorreva anche un cambiamento di uomini.
Il problema del governo esplose nei giorni successivi, per l’opposizione di larga parte del gruppo parlamentare alla legge delega, in collegamento con un atteggiamento di sfiducia nei confronti dell’esecutivo che avrebbe condotto all’abbandono del provvedimento11: sulla destra era emersa una forte opposizione ad Antonio Segni per la riforma agraria, mentre da sinistra le critiche si rivolgevano soprattutto verso Carlo Sforza e Randolfo Pacciardi12. Tali atteggiamenti suscitarono una forte reazione di De Gasperi e lo spinsero “a porsi in una posizione polemica ed a dichiarare di non considerare attuale il problema di una crisi o di un rimpasto”13. Nella vivace discussione che ne seguì, la possibilità di una crisi o di un rimpasto venne affrontata all’interno di un limite considerato dai più invalicabile: qualunque soluzione non avrebbe dovuto mettere in difficoltà De Gasperi, come invece sembrava voler fare una parte del gruppo parlamentare. Rilevando il forte orientamento in questo senso dei vespisti, Domenico Ravajoli si espresse a favore di un rimpasto – l’impossibilità di allontanare Pacciardi rendeva impraticabile l’ipotesi di un monocolore – con la sostituzione di Sforza, forse anche di Giuseppe Togni e Segni. Secondo Ravajoli, non era invece possibile sostituire Pella: toccare Pella avrebbe significato, infatti, mettere in discussione De Gasperi. Per Taviani, un radicale cambiamento di governo era al tempo stesso necessario e impossibile: il contesto di guerra implicava una “svolta simile a quella affrontata nel 1947”, ma la situazione non era matura per una simile scelta14. “Il problema centrale [era] costituito da Pella”, in quanto principale oppositore di una politica dirigistica, sollecitata dalla situazione di guerra, ma anche Taviani riteneva che toccare Pella significasse in quel momento mettere in discussione De Gasperi. A sua volta Giuseppe Bettiol espresse un’opinione più ottimistica – l’emergenza internazionale era ormai in fase di superamento -, suggerì di separare questione della delega e fiducia al governo – sgonfiando così la questione Pella – e affermò non soltanto l’esigenza di non mettere in discussione De Gasperi, ma anche quella di tenere nel governo Sforza e Pacciardi. Secondo Dossetti, la vera e propria situazione di guerra in cui l’Italia si trovava imponeva subito un radicale cambiamento di governo. Egli propose di affidare un ampio mandato a De Gasperi perché procedesse in questo senso, imponendogli di agire prima delle elezioni amministrative15. Mentre la questione del rimpasto o della crisi rimaneva aperta, Gonella insistette per votare la delega, provocando le opposte reazioni di Taviani e di Giovanni Elkan: per il primo, la delega non doveva implicare la fiducia al governo, per l’altro, invece, la delega andava collegata alla fiducia16. Ravajoli affermò la necessità di votare la fiducia solo se la questione si fosse posta, mentre Dossetti subordinò l’abbinamento delega-fiducia alle garanzie sull’uso della delega, nel senso già illustrato.

Dossetti contro De Gasperi

La questione della delega e della fiducia venne nuovamente affrontata nella Direzione dell’8 febbraio, nel corso della quale Gonella sostenne che, non essendo state esplicitate le riserve sugli uomini che avrebbero dovuto attuare la delega, si doveva considerare implicita la fiducia nel governo17. Si trattava di un atteggiamento diverso da quello emerso nelle rii precedenti, che infatti sollevò obiezioni e dissensi, anche se sulla linea di Gonella finirono per collocarsi in molti, come Ravajoli, Giorgio Tupini, Cesare Dall’Oglio, Taviani, Ercole Marazza, Mariano Rumor, convinti, per motivi diversi, dell’impossibilità o dell’inopportunità di una crisi o di un rimpasto di governo. Dossetti invece, insistette per mantenere separata delega e fiducia, preoccupato dei contenuti della politica che sarebbe stata attuata grazie alla delega: “Siamo sempre d’accordo sulla delega, ma diteci a che cosa deve servire! […] così come c’è stata presentata non è né maschio né femmina18.
L’intervento di Dossetti spinse vari membri della Direzione a riconoscere che sarebbe stato preferibile non affrontare la questione della fiducia in sede di discussione della delega. Si riconobbe però che, a causa delle opposizioni presenti nel gruppo parlamentare, il problema non poteva essere evitato. Ma, osservò nuovamente Dossetti, un’eventuale fiducia al governo avrebbe inevitabilmente provocato un rinvio della crisi di governo a dopo le elezioni amministrative di giugno, in modo tale che la delega in materia economica sarebbe stata gestita dall’esecutivo senza garanzie e dagli uomini di sempre19. Provocato da Tupini, si pronunciò non solo contro la fiducia ma anche contro la delega, finendo per assumere un atteggiamento di complessiva opposizione al governo. La posizione di Dossetti subì così una rilevante oscillazione nel corso di quella Direzione, provocando la reazione negativa di Taviani, Ravajoli e molti altri che pure condividevano la sua linea di politica economica. Ma, egli ribadì, rimandare la crisi avrebbe significato di fatto che “il rinnovamento non si farà più“: “rifiuta il dilemma – accettare tutto adesso o rifiutare tutto adesso”. Da questo momento, si può dire, la discussione in Direzione riguardò sempre meno i contenuti della politica economica e sempre più il rapporto tra partito e governo, e tra Dossetti e De Gasperi.
Malgrado lo strappo, nell’immediato sembrò comunque possibile raggiungere un qualche compromesso, che venne esposto da Gonella ai deputati democristiani. Successivamente, dopo una serie di votazioni alla Camera, di cui Giovanni Gronchi era allora presidente, che misero in difficoltà il governo, grazie probabilmente alla fronda gronchiana, De Gasperi impose la fiducia non sulla delega per la politica economica ma sulla legge per il riarmo20. La Direzione si riunì nuovamente l’8 marzo per discutere la grave vicenda dei franchi tiratori gronchiani, ma il dibattito si allargò immediatamente alla crisi complessiva di un partito che appariva sempre più diviso tra vespisti, gronchiani, centristi e dossettiani. In particolare, l’attenzione si concentrò su questi ultimi, anche se i comportamenti più eclatanti erano venuti dai gronchiani, perché, più di tutte le altre tendenze, la corrente dossettiana presentava particolari caratteristiche di compattezza ideologica e organizzativa21.
La questione venne posta esplicitamente da Taviani, che ricordò di essersi dimesso da segretario per formare una Direzione che comprendesse anche la corrente dossettiana, in modo da rafforzare l’unità del partito. Il tentativo, però, era fallito. Taviani richiamò in particolare l’esito del recente congresso dei Gruppi giovanili della DC, dove era stato eletto delegato nazionale il dossettiano Franco Maria Malfatti: in questo modo, i Gruppi Giovanili era stati messi sotto la guida di una corrente organizzata22. Taviani concluse affermando che, pur ritrovandosi nel campo della politica economica più vicino a Fanfani che a Pella, non poteva accettare i metodi seguiti dai dossettiani. Gli fece subito eco Elkan il quale sottolineò che, dalla soluzione scelta per la Direzione – all’interno della quale peraltro erano rimasti aperti i problemi derivanti dalla “diversità di impostazioni dell’on. Gonella e dell’on. Dossetti” -, “il Consiglio Nazionale […] [era] risultato esautorato e che […] [era] stato questo esautoramento a provocare la crisi del Gruppo parlamentare”, dove erano prevalse irrequietezza politica e molteplici divisioni.
Dossetti respinse le critiche e ricordò che “dopo il Consiglio nazionale dello scorso gennaio si attendeva che il cambiamento di politica si sarebbe verificato con ritmo accelerato. Ciò [però] non [era] avvenuto23. Egli prese soprattutto le distanze dalla dichiarazione di Gonella, secondo cui “De Gasperi […] [era] l’uomo di fiducia non solo del partito ma di tutti gli italiani degni di questo nome”. Era un’affermazione che evocava un governo svincolato dal partito e un partito subordinato all’esecutivo, intorno a una centralità politica non della DC ma della persona di De Gasperi, espressiva di una convergenza di consensi molto ampia. Tornava implicitamente a emergere la questione, tanto discussa negli anni precedenti all’interno della DC, di come si dovesse interpretare il successo del 18 aprile 1948. Per De Gasperi, si era trattato di “una vittoria non della DC, ma della coalizione governativa”, mentre Dossetti insisteva nell’affermare che la democrazia era legata alla partecipazione politica di cui il partito era espressione24.
Il contrasto con De Gasperi assunse in Dossetti anche un aspetto personale, in relazione a dichiarazioni rilasciate alla stampa dal presidente del Consiglio. Anche se poi smentite, secondo Dossetti quelle dichiarazioni dovevano ritenersi esatte perché il presidente del Consiglio già in precedenza gli aveva detto: “‘Hai portato il partito troppo contro il mondo laico’, accennando a ‘fraterie’ o cose del genere”. Dossetti concludeva: “Io non darò più in nessuna maniera la fiducia a De Gasperi”. Queste parole fecero molta impressione all’interno della Direzione. Ravajoli lo interruppe esclamando: “Sfiducia verso tutto e verso tutti significa sfiducia verso il Partito! Quando un partito si dà un capo, almeno che non diventi matto, non si può affrontarlo di petto senza provocare lo sfacelo”. Subito dopo intervenne Gonella per denunciare “la gravità delle dichiarazioni fatte dall’onorevole Dossetti”, mentre altri sottolineavano l’urgenza di un chiarimento radicale per ritrovare l’unità all’interno del partito25.
Tutti riconobbero che la posizione assunta da Dossetti rendeva necessario un chiarimento radicale26: secondo Taviani il problema cruciale era rappresentato dalle correnti, per Gonella invece era decisiva la questione dell’atteggiamento verso il governo. Secondo il segretario, l’assunzione di posizioni inaccettabili nei confronti del governo era la conseguenza delle divisioni interne al partito: occorreva ricostruire l’unità interna per tornare a sostenere pienamente il governo. “Siamo partiti […] con una Direzione che realizzava […] un’unità sostanziale e ci siamo ritrovati polverizzati da correnti e da gruppi (vespisti, gronchisti, dossettiani, centristi)”27. Ciò che più lo preoccupava, però, era che, il giorno prima, Dossetti avesse “dichiarato che il presidente anziché unire, divide, che non ha fiducia in lui, che non ha fiducia in altri uomini di governo”28. Ma il vicesegretario smentì l’interpretazione di Gonella: egli si offrì infatti di accantonare i motivi di dissenso nei confronti del governo fino alle elezioni amministrative, ma ribadì fermamente il suo diritto di fare liberamente politica all’interno del partito, difendendo di fatto la sua azione “correntizia”. La chiarezza, egli sostenne, poteva essere raggiunta ripristinando la dialettica tra maggioranza e minoranza, rinunciando al progetto di una Direzione di concentrazione e provocando un dibattito tra tutte le componenti del partito in sede di Consiglio nazionale. Dossetti si augurava che la sua corrente tornasse ad assumere esplicitamente un ruolo di minoranza e di opposizione all’interno del partito. Per quanto riguarda la questione cruciale dell’unità del partito, così recita il verbale: 2da parte sua non c'[era] stato nulla che potesse metterla in pericolo e […] nessuna azione è stata promossa e svolta all’interno del partito per conquistare una maggioranza. È stato posto il problema: Cosa potrebbe accadere se Dossetti ed i suoi conquisteranno la maggioranza? – ed è stato risposto:
“Succederà che il partito si rimpicciolirà nelle proporzioni e si restringerà come influenza perché a Dossetti non si danno i consensi che si danno invece a De Gasperi”. Egli, dice, se lo è rivolto escludendo di potere e di volere conquistare la maggioranza perché è convinto che il partito perderebbe veramente quota e consensi29.
Per Dossetti era insomma impossibile che i dossettiani aspirassero a diventare maggioranza e assumessero la guida del partito. Giunto alle soglie di una rottura radicale con De Gasperi, emergeva in lui una posizione rinunciataria che adombrava, nell’immediato, una sorta di ripiegamento all’interno del partito e che poi si sarebbe trasformata nel suo ritiro dalla DC e dalla politica. La nuova e inattesa posizione venne da lui motivata attraverso “una rapida analisi dell’azione sviluppata dai cattolici in campo politico dagli inizi ad oggi”, da cui egli ricavava l’assenza di un confronto adeguato della tradizione cattolica con lo Stato moderno: Attribuisce questa carenza alla mancanza di una soluzione di continuità fra coloro che hanno vissuto l’esperienza democratica prima della dittatura e coloro che si sono presentati alla ribalta politica dopo la caduta della dittatura con un bagaglio di impostazioni maturate durante il periodo della dittatura stessa ed il periodo clandestino“. Da una parte “gli anziani malgrado la loro buona volontà non hanno saputo affrontare e soddisfare le esigenze reclamate da uno stato moderno“, dall’altra ai giovani era mancato il radicamento nella tradizione del cattolicesimo italiano rappresentata dagli ex popolari30. Dossetti riconosceva errori e avventatezze dei giovani, ma attribuiva le principali responsabilità della mancata saldatura soprattutto agli anziani.
In questo modo, Dossetti interpretava la contrapposizione personale tra lui e De Gasperi in chiave di tendenza generale e caricava di significato storico la frattura tra le diverse generazioni confluite nella Democrazia cristiana, individuando nella mancata continuità tra anziani e giovani i motivi del fallimento dell’azione politica dei cattolici nel secondo dopoguerra. Impostando il discorso in chiave generazionale, egli evitava di interpretare lo scontro interno al partito sia come lotta di potere tra leader o gruppi in concorrenza tra loro, sia come conflitto fra tendenze ispirate da disegni politici antagonistici. Dalla vicenda personale si passava direttamente alla questione storica, quasi saltando, per così dire, il livello politico. Per Dossetti, all’interno di un mondo cattolico che egli concepiva in modo unitario, le due diverse generazioni degli anziani e dei giovani non dovevano contrapporsi ma integrarsi e, in quest’ottica, egli si tirava indietro per non esasperare le divergenze e soprattutto per non cristallizzarle in uno scontro radicale. In tale interpretazione erano presenti motivazioni che appaiono componibili con le successive scelte compiute da Dossetti, compreso il suo ritiro dalla DC, ma le “ragioni” dell’influenza dossettiana sulla politica dei cattolici non venivano accantonate: erano anzi ribadite e rilanciate.

Le parole di Dossetti provocarono la protesta di Gonella, che respinse le accuse rivolte contro gli “anziani”, e soprattutto la risposta di Taviani, che lo accusò di scarso senso della realtà e spostò sul piano politico la difesa di De Gasperi – “mettere in discussione oggi De Gasperi significa mettere in crisi il Partito e il Paese” – e la critica dell’atteggiamento dossettiano – “gli avvenimenti e le vicende di questi ultimi tempi […] non [hanno] fatto altro che rafforzare la posizione ed il prestigio di De Gasperi”31. Secondo Taviani, l’analisi di Dossetti andava rovesciata: le colpe principali non erano degli anziani ma dei giovani che “si sono organizzati in gruppi aggressivi ed ostili soprattutto ansiosi di prevalere”. La “tendenza al circolo chiuso”, alla “comunità”, alla “collettività” costituiva un grave pericolo per la
“compagine del partito”, imponendo un chiarimento definitivo. La discussione si concluse con la decisione della Direzione di rassegnare le dimissioni, ma di non renderle subito pubbliche, in attesa di una convocazione del Consiglio nazionale entro il mese di marzo. Il Consiglio nazionale non poté però essere riunito in così breve tempo – si sarebbe svolto solo dopo le elezioni amministrative – e all’inizio di aprile Dossetti scrisse una lettera al segretario politico, di cui in sede di Direzione chiarì il significato affermando: La mia lettera […] non è un documento, ma un atto. È cioè una manifestazione di volontà: quella di dimettermi comunque da membro della Direzione che si distingue dalla volontà comune di dimettersi […] il suo è un impegno serio che intende mantenere in pieno32.
Proseguendo su una linea di opposizione interna sempre più esplicita, su “Cronache Sociali” del 15 maggio Dossetti pubblicò una critica della legge elettorale, accusando De Gasperi di aver devitalizzato il partito, al contrario di Sturzo che, attraverso una scelta di “intransigenza”, nel primo dopoguerra aveva esaltato la personalità del PPI33. L’articolo toccava ancora una volta la questione dell’interpretazione del 18 aprile: vittoria della DC o di una coalizione governativa?34
Dossetti si schierò nuovamente a favore della prima ipotesi, ma le successive elezioni amministrative avrebbero segnato la fine di molte illusioni: la straordinaria mobilitazione del 1948, infatti, non si sarebbe ripetuta, rendendo di fatto superati molti interrogativi su una stagione ormai conclusa.

Il Consiglio Nazionale di Grottaferrata

La campagna per le elezioni amministrative impose una lunga sospensione del dibattito interno alla DC, fino al Consiglio nazionale di Grottaferrata, che si tenne tra fine giugno e inizio luglio 1951, in un clima politico profondamente influenzato non solo dalle consultazioni italiane ma anche da quelle che si erano tenute in Francia, particolarmente preoccupanti per l’Mrp. Malgrado la conquista di molti comuni a opera della maggioranza centrista, grazie alla nuova legge elettorale, si era registrato un calo della DC, un contenimento dei partiti laici, un recupero delle sinistre e una crescita delle destre35. Gonella parlò di sostanziale stabilità delle sinistre intorno al 33 per cento, fatto che confermava la persistenza del pericolo comunista, mentre l’area di destra appariva in crescita, all’interno di un consenso potenziale che fluttuava tra il 15 per cento e il 30 per cento. L’affermazione delle estreme metteva in difficoltà il centro, stretto nella “tenaglia” comunismo-neofascismo: “si è accorciata disgraziatamente la distanza fra democrazia e antidemocrazia”, dichiarò Gonella36, e De Gasperi osservò che “quando comincia a venir meno la fiducia, si profila il pericolo della dittatura”37.
A Grottaferrata, qualcuno parlò di “una situazione di fatto forse più grave di quella da Gonella esposta”, spingendo verso l’assunzione di una “posizione più netta contro i marxisti e contro la loro azione antinazionale. Ridurre la libertà per chi non è degno di essa, come lo sono i comunisti”38. Queste tentazioni vennero però respinte da De Gasperi, che troncò subito ogni discussione in merito39: la soluzione dei problemi andava cercata sul terreno della democrazia. In pratica, ciò significava perseguire in primo luogo un rafforzamento della DC. Occorreva far valere la “personalità del Partito” contro “il diseducativo spirito dei blocchi”, disse Gonella.
Il Partito per noi è tutto. Se esso crolla, crolla lo Stato democratico. Il Partito è il mediatore necessario fra popolo e Stato. Se il Partito non ha prestigio anche le stesse opere costruttive del Governo possono avere scarsa presa. Il Partito, consolidandosi, consolida lo Stato democratico“.
A Grottaferrata, gran parte del dibattito ruotò sulla stabilità delle sinistre e sulla persistenza del pericolo comunista, evidenziata oltre che dalle amministrative italiane anche dalle elezioni francesi40. La forza del comunismo venne attribuita soprattutto alla solidità organizzativa del PCI41. Gronchi insistette invece sul radicamento internazionale del comunismo, affermando che non ci si doveva far “mettere sul banco degli accusati dai comunisti sulla questione della pace e della guerra. Difesa positiva e non negativa dal comunismo”42. Egli osservò inoltre che “il comunismo non è solo dei poveri”: “il comunismo non è solo un fatto sociale […] ma è anche e soprattutto un fatto ideale e religioso”. Inutili, anzi controproducenti, gli apparivano i vari spezzoni di riforma agraria proposti fino a quel momento: “l’equivoco dei contadini ricchi che ha[nno] votato per il comunismo è dovuto al fatto che non siamo stati capaci di raggiungere queste categorie”. Ma anche questa volta Gronchi rimase isolato. La maggioranza era infatti convinta che, come affermò Mario Scelba, i motivi del successo del PCI in Italia non erano effetto “come dice Gronchi di fatalità storica. Il successo del PCI è prevalentemente di carattere organizzativo”43.
Parallelamente all’analisi della forza organizzativa del PCI, si sviluppò un’intensa discussione sulla DC. Secondo Gonella, era anzitutto necessario “rafforzare una politica di severità e di intransigenza interna al Partito”, allo scopo di “essere forti internamente per consolidare la nostra influenza esterna”. “Il Partito – affermò Scelba – ha ripreso consapevolezza della battaglia politica che si combatte e della sua importanza. Questa consapevolezza ha reso il C.N. concorde sull’esigenza dell’unità […] Oggi l’unità del partito rappresenta l’unica forza efficiente per la conquista dell’elettorato”44. Anche molte altre voci si unirono a Gonella e Scelba per invocare una maggiore unità interna.
A Grottaferrata, si affermò inoltre l’idea che, per contrastare il comunismo, la DC doveva trasformarsi in un partito simile al PCI sotto il profilo organizzativo. “Il Partito non può essere un semplice strumento elettorale; esso deve essere una milizia continua al servizio del Paese“, disse Gonella nella relazione di apertura, affermando che la DC doveva dotarsi di una componente “tecnica”45. Mancava infatti “un adeguato apparato permanente, sia organizzativo che propagandistico”, ed era urgente “allargare i polmoni dei Gruppi Giovanili e valorizzare le donne”. Tupini, pur riconoscendo che “il […] partito ha la sua più bella dote nel ‘volontarismo’ dei suoi uomini“, affermò che tale dote non era più sufficiente per contrastare il PCI46. Maria Jervolino sostenne l’idea di un apparato permanente del partito e sottolineò l’esigenza di intensificare i contatti con le donne (gran parte del voto, che nel 1951 aveva abbandonato la DC per andare a destra, era un voto femminile)47. Sulla linea di Gonella, si collocò anche Piccioni: “di fronte all’organizzazione ‘militare’ del PCI, possiamo noi continuare con le attuali strutture organizzative e direzionali? Non credo48. Scelba a sua volta osservò che “di fronte a tanti pericoli si pone per noi della DC nella sua gravità, il problema dell’organizzazione del Partito49. Una decisa opposizione alla trasformazione organizzativa della DC venne invece da Gronchi che – in linea con la sua analisi del problema comunista – respinse l’idea di creare un funzionariato di partito50.
In quel Consiglio Nazionale, si sottolineò anche che la CGIL costituiva per il Partito Comunista uno stabile canale di raccolta del consenso. Si poneva perciò il problema di “creare un sindacalismo nostro”, come disse Piccioni, per incrementare e stabilizzare il consenso verso la DC. Anche questo obiettivo si trovava già nella relazione iniziale di Gonella51, ma, a differenza della proposta di rafforzare le strutture del partito, l’idea del sindacato “cinghia di trasmissione” della DC incontrò decise resistenze, insieme a quella di una legge attuativa della Costituzione che limitasse la libertà di sciopero. Fu anzitutto Mario Romani a bocciare l’idea di un sindacato collaterale: “Rigetta nel modo più completo la definizione data da Gonella del movimento sindacale come forza ausiliaria del Partito52. Romani affermò che una subordinazione di questo tipo avrebbe impedito al sindacato “una decente possibilità di sviluppo specie nell’Italia del 1951” e sottolineò la funzione positiva di un sindacato autonomo nella lotta contro il comunismo53. Le obiezioni contro la legge per disciplinare l’attività sindacale vennero respinte da De Gasperi, che ribadì l’esigenza di limitare gli scioperi nel pubblico impiego, per ripristinare la fiducia nello Stato. “Se lo Stato è carente su questo terreno – dichiarò il presidente del Consiglio – sia sicuro Romani che in Francia ci penserà De Gaulle e in Italia qualcun altro. Questa è la realtà. Niente è più grave del non far niente; lasciando apparire lo stato come inerte di fronte alle ribellioni dei suoi dipendenti54. Anche su questo terreno, egli intervenne per affermare la necessità di rispettare la Costituzione, sebbene ciò potesse favorire la CGIL55.
Il dibattito affrontò inoltre la questione dell’emorragia di voti democristiani verso il Movimento Sociale. Scelba parlò di “tentativo comunista di distruggere la democrazia attraverso un franamento a destra. In questo momento il Msi si presenta, per tali ragioni, più pericoloso del PCI; perché la sua azione si esercita all’interno della DC”56. Per il Mnistro dell’Interno, era urgente sciogliere il MSI: “sul terreno minato del neofascismo non si può traccheggiare […] Non varare tempestivamente la legge anti MSI è per lui esiziale”57. Ma De Gasperi intervenne in senso contrario: “oggi sciogliendo il comunismo, non si farebbe altro che indurlo a mimetizzarsi nella CGIL; lo stesso potrebbe fare il MSI con la sua CISNAL se noi lo sciogliessimo58. Nello stesso senso intervennero molti altri59, come Bettiol, il quale osservò tra l’altro che “la Magistratura [era] inquinata dal fascismo, dal conformismo e dalla massoneria; troppo poche le isole DC Magistratura; quindi la Magistratura non prenderà mai un provvedimento anti- MSI60. Respingere lo scioglimento del Movimento Sociale implicava però l’individuazione di strumenti alternativi per contrastare il pericolo neofascista.
Una prima possibilità venne individuata in una maggior attenzione verso una ripresa dello spirito nazionalistico che si manifestava nel paese, in particolare tra i giovani, e che aveva contribuito alla crescita delle destre. Occorreva togliere alle destre la loro arma più efficace, osservò qualcuno, “facendo […] leva sul sentimento patriottico. Rivalorizzare i valori nazionali, senza preoccupazioni di cadere in un supernazionalismo61. Bettiol, capogruppo alla Camera, e perciò sensibile agli umori dei deputati, raccomandò di “non dimenticare poi che c'[era] in Italia un’atmosfera di ritorno al mito nazionalista, un’irrazionalità che esclude[va] una chiara visione dell’europeismo”. Esortò perciò a non prescindere da “motivi nazionali. Europeisti sì, ma non rinunciatari62. Giulio Andreotti raccomandò invece di contrapporre alla forza internazionale del comunismo qualcosa di “concretamente supernazionale. Non già le idee astratte di europeismo e federalismo. Ma la rivendicazione della solidarietà atlantica con simboli di carattere positivo che servano a muovere l’opinione pubblica e soprattutto i giovani63. De Gasperi, nella replica finale, sottolineò che le aperture verso lo spirito nazionalistico non potevano superare un certo limite, anche perché il quadro internazionale e la solidarietà atlantica non permettevano di assumere posizioni decisamente nazionalistiche64. Anche l’arma del nazionalismo, dunque, non poteva costituire un mezzo decisivo per contrastare il neofascismo.
In quel Consiglio nazionale, si sottolineò anche che la “frana” a destra si collegava ad altre due questioni: i rapporti con il mondo cattolico e la presenza della DC nel Mezzogiorno. Scelba parlò di un diminuito apporto delle organizzazioni confessionali: “Basta che l’Azione Cattolica si metta in una posizione di agnosticismo verso la D.C. perché le sorti della democrazia in Italia vengano compromesse65. Nello stesso senso Andreotti invitò a “non sottovalutare l’insidia che opera[va] anche nel mondo cattolico nel senso di richiamare certe nostalgie dello Stato totalitario, come presidio dell’altare66. Egli esortò il partito a liberarsi da un’impropria tutela della Chiesa, ma anche a stringere maggiori rapporti con organizzazioni cattoliche come CIF, ACLI, CISL: il problema, disse, era “mantenere l’unità politica sul piano democratico del mondo cattolico italiano67.
Andreotti sottolineò anche quello che chiamò il “problema psicologico del Mezzogiorno”68. Su questo terreno intervenne Gennaro Cassiani, osservando che la frattura, verificatasi nei mesi precedenti tra partito e deputati della DC, era dovuto all’inclinazione verso il trasformismo legata al temperamento individualista dei meridionali, a cui si era aggiunto “il fatto che la DC [avesse] trascurato il problema psicologico, e perciò politico, del Mezzogiorno”69. Dal giovane Paolo Barbi, vicino alle posizioni dossettiane, venne invece una delle poche valutazioni positive del recente risultato elettorale70. In Campania, egli osservò, ci si aspettava che la legge dell’apparentamento giocasse a danno della DC e a favore dei laici. In questa regione, invece, l’apparentamento aveva “lasciato al punto di prima i parenti e sostanzialmente più forti noi”. Ciò significava, era la sua conclusione, che i voti del 18 aprile 1948 non erano stati voti prestati” alla DC: dai risultati raggiunti, si doveva perciò trarre l’indicazione di insistere sull’identità e sul programma della DC. Anch’egli in dissenso con la proposta Scelba, Barbi riteneva che, contro le destre, “il metodo migliore [fosse] quello della morbidezza e non quello della durezza“.
A Grottaferrata, insomma, il risultato delle amministrative del 1951 – e l’ombra delle elezioni francesi – innestò un ampio dibattito sulla situazione politica, sul futuro della DC e sugli orientamenti da assumere. All’interno di un ventaglio di opinioni piuttosto vasto, De Gasperi intervenne più volte su questioni decisive: i suoi interventi posero una serie di “paletti” assai rilevanti per lo sviluppo della discussione. Egli, infatti, denunciò i pericoli che correva in quel momento la democrazia italiana davanti alla persistente forza comunista e in presenza di una crescente sfiducia verso l’autorità dello Stato. Ma bloccò anche, sul nascere, la tentazione di imboccare “scorciatoie” istituzionali o politiche per risolvere questi problemi, pronunciandosi in particolare contro l’assunzione di iniziative legislative contro il PCI e il MSI o contro adesioni a possibili derive ideologiche verso il nazionalismo. Di particolare rilievo appare il rispetto mostrato da De Gasperi verso la Costituzione e la sua insistenza per mantenere l’iniziativa legislativa entro una cornice costituzionale71: è una sensibilità che non si ritrova con lo stesso grado di intensità né alla destra né alla sinistra del partito, entrambe inclini a soluzioni “forti” seppure con opposte motivazioni. Respingendo un’ipotesi di rafforzamento istituzionale alla De Gaulle, che gli sembrava profilarsi in Francia, De Gasperi affidava l’interesse nazionale e la difesa della democrazia all’iniziativa politica e all’azione dei partiti, in primo luogo della DC72. All’interno di questi binari, l’esigenza di rafforzare la DC, sia cementandone l’unità interna sia accrescendone la forza organizzativa, si impose a Grottaferrata come obiettivo prioritario, soprattutto in vista delle elezioni politiche del 1953. Perduto una sorta di “monopolio” dell’anticomunismo, con la crescita delle formazioni politiche alla sua destra, il partito non poteva più fare affidamento in modo incondizionato sul mondo cattolico e sulla “riserva” del Mezzogiorno. Da parte del sindacato, inoltre, non era possibile aspettarsi un sostegno e diretto e immediato, mentre le responsabilità di governo lo esponevano a un inevitabile logoramento. A Gottaferrata emerse la convinzione che, venuto meno nell’elettorato lo spirito del 18 aprile73; per proseguire sulla stessa strada, la DC doveva contare soprattutto su se stessa, rafforzando la sua forza organizzativa e la sua capacità attrattiva: questa linea, su cui si attestò anzitutto il “centro” del partito, formato in gran parte da ex popolari e vicino a De Gasperi, conquistò molti consensi, divenendo maggioritaria.
In questo senso, la trasformazione organizzativa della Democrazia Cristiana, come la nascita di un “partito pesante” con tratti diversi dal partito degasperiano che aveva vinto nel 1948, non sembra riconducibile in primo luogo alla “seconda generazione”74. Tale trasformazione è stata generalmente collocata dopo il 1954 e attribuita a Fanfani. Effettivamente la DC cambiò profondamente soprattutto nel corso di questa segreteria, ma le premesse per costruire un “partito nuovo” emersero già nel Consiglio Nazionale del giugno-luglio 1951, dove, per la prima volta, il problema di passare da “partito elettorale” a “organizzazione permanente”, per contrastare il PCI e per far restare la DC cardine dell’intero sistema politico, venne affrontato esplicitamente a opera anzitutto di esponenti della vecchia generazione vicini a De Gasperi. Tale origine conferisce anche un significato diverso alla trasformazione organizzativa della DC, che non nacque in primo luogo per accrescere l’autonomia politica e l’identità programmatica del partito, per realizzare insomma un “partito dossettiano”, ma anzitutto per conservarne il ruolo centrale nel sistema politico italiano.

Il “processo” ai dossettiani

L’orizzonte politico che si delineò a Grottaferrata non favorì i dossettiani. In quel Consiglio Nazionale, essi furono accusati di aver incrinato l’unità interna del partito con i loro comportamenti. Gonella sottolineò un po’ enfaticamente che “il Partito per noi è una società di fede, di affetti, di opere“, la quale esige anzitutto “autoeducazione e autodisciplina“: non si trattava di mere formule retoriche, bensì di affermazioni critiche verso le correnti, in primo luogo quella dossettiana. Ancora più importanti, sotto il profilo politico, furono le critiche alla linea seguita dai dossettiani nei mesi precedenti, che sembrava ormai ampiamente contraddetta dai fatti. In particolare, apparve ormai impraticabile la proposta di svincolare la DC dall’alleanza con i laici e puntare sul monocolore programmatico per rinnovare in profondità l’azione di governo.
A Grottaferrata, Ludovico Montini ribadì per primo che doveva essere il partito a indicare al governo le linee di politica economica75. “L’istanza dell’ora è […] il cambiamento di governo. Dopo Cappa, che sostenne l’esigenza di attirare l’elettorato con una nuova politica economica ed estera76, intervenne Achille Ardigò secondo cui “il vero problema determinante del citato spostamento [di voti era] il Governo” e non il partito; era infatti emersa una “crisi dell’alleanza tra il Partito di governo e i ceti medi” ed era perciò necessario produrre “la persuasione che siamo capaci di costruire uno Stato. La DC non come uno strumento di conservazione dell’attuale equilibrio, ma come strumento di base per un nuovo Stato cristiano […] Quella certa crisi del partito non può risolversi senza una rinnovazione delle strutture governative [il corsivo corrisponde a una sottolineatura dell’originale, nda.]“. Nello stesso senso si pronunciò Lazzati: “Accetta la tesi di Ardigò. Il problema è il governo più che il Partito“. Occorreva smuovere la burocrazia, cambiare se necessario i direttori generali dei ministeri, svolgere un’azione più incisiva. Insomma: “il rinnovamento del governo [costituisce] un problema indifferibile da affrontare […] Questo non vuol dire un governo ‘monocolore’; ma vuol dire ai ‘parenti’ chi vuol venire venga con noi; altrimenti ne faremo a meno“. Le parole di Lazzati provocarono uno “scatto” di De Gasperi, di cui questi successivamente si scusò77.
L’intervento più importante su questo terreno fu naturalmente quello di Dossetti. Questi riconobbe che il momento era molto difficile, che il margine per la sopravvivenza della democrazia era diventato limitato, che occorreva evitare ulteriori slittamenti dell’elettorato democristiano78. Ma, prosegue il verbale, “in ordine al rapporto fra le esigenze della politica interna e l’azione di Governo […] È convinto che si è fatto poco“. La situazione, infatti, era radicalmente cambiata dopo lo scoppio della guerra di Corea nel giugno 1950: “Siamo immersi in una straordinaria emergenza. L’elettorato ci rimprovera una mancanza di vigore nell’azione anticomunista […] Non è ammissibile che un Paese come il nostro faccia una politica estera in cui i toni della nostra cattolicità siano annullati“. Egli lamentò inoltre i continui rinvii nel campo della politica economica, la crisi di rapporto con i ceti medi, le divisioni all’interno del governo. Insomma, concluse Dossetti, “bisogna fare oggi e subito”, svegliando i “parenti” e rendendo più adeguato il governo79.
Sotto certi aspetti, la sconfitta elettorale conferiva un qualche fondamento agli interventi del gruppo dossettiano, che sottolineavano le carenze dell’azione di governo: un rinnovamento dell’esecutivo e l’adozione di una politica più incisiva avrebbero potuto favorire un recupero nelle elezioni del 1953. Ma questo obiettivo non poteva essere perseguito attraverso una più stretta subordinazione del governo al partito né, soprattutto, tramite un monocolore. La situazione sembrava, infatti, indicare la necessità opposta di rinsaldare i rapporti con i “parenti” – così chiamati per via della legge elettorale sull’apparentamento – puntando, se possibile, al ritorno dell’alleanza quadripartita o, comunque, di un governo di coalizione, nella logica del 18 aprile e nell’ottica non di indebolire ma di rafforzare il governo80. A Grottaferrata si levarono molte voci favorevoli a rafforzare l’alleanza con i laici, come quella di Mario Cingolani che riferì l’opinione prevalente tra i senatori, di cui era capogruppo: “bisogna tornare al quadripartito per far fronte al duplice pericolo comunista e missino”81. La questione venne definitivamente chiusa da De Gasperi che, nell’intervento conclusivo, riconobbe l’opportunità di accettare la proposta di un rinnovamento del governo, ma definì “fantasiosa la diffida formale proposta da Dossetti, per i ‘parenti’“.
In linea di fatto – proseguì – le circostanze rendono necessaria ancora la coalizione democratica per allontanare le probabilità della conquista comunista. Se si accetta questo presupposto democratico, a meno che non si voglia ricorrere a formule extralegali, resta il problema di vedere come mantenerci gli alleati necessari e conservare il famoso “margine di sicurezza”82.
La realtà delle cose spingeva per distinguere tra incisività dell’esecutivo e maggioranza di governo. Il primo a esplicitare tale esigenza fu Ravajoli, ormai sempre più vicino al centro del partito, che separò il problema del rinnovamento dell’azione del governo da quello delle alleanze politiche83. Dopo di lui, molti ripresero questa prospettiva.
In questo contesto, si colloca la “svolta” attuata da Fanfani a Grottaferrata. Il suo comportamento in quell’occasione è stato oggetto di molti commenti e non appare ancora del tutto chiarito in sede storiografica. Il “passaggio” di Fanfani da Dossetti a De Gasperi, come è stato definito, gli ha infatti attirato accuse di tradimento personale (peraltro contraddette dalle ricostruzioni che attribuiscono a una matrice dossettiana il “partito pesante” da lui poi realizzato come segretario della DC). Il dibattito che si svolse in quel Consiglio Nazionale fa invece emergere i motivi politici che indussero Fanfani a una svolta – non immediatamente respinta da Dossetti e dagli altri dossettiani – in assenza di alternative facilmente praticabili. Tale svolta maturò sotto la pressione delle critiche rivolte ai dossettiani e dei tentativi per estrometterli dalla Direzione. Per risolvere i contrasti dei mesi precedenti – riguardanti a suo avviso più la linea politica che problemi interni di partito – Gonella aveva proposto una soluzione di compromesso tra le opposte esigenze di dare maggior spazio alla discussione tra le diverse posizioni e garantire una maggiore omogeneità di guida: “propone una Direzione rappresentativa al massimo, ma con un esecutivo omogeneo”84. Si trattava di un’ipotesi formulata da Ravajoli, che intervenne per sostenerla nella logica di inserire tutte le correnti all’interno della Direzione, chiedendo però loro di non trasformarsi in fazioni85. Subito dopo intervennero invece i rappresentanti del centro, che volevano un’estromissione completa dei dossettiani dalla guida del partito. Elkan si pronunciò per una Direzione globalmente omogenea e non solo nell’esecutivo; d’accordo con lui, Giorgio Braga e Giuseppe Sala sottolinearono l’esigenza di ristabilire una più incisiva dialettica tra Consiglio Nazionale e Direzione: le diverse tendenze dovevano esprimersi liberamente nella prima sede, mentre la seconda richiedeva una composizione omogenea per formulare una linea efficace e incisiva86. Intervenne dopo di loro Antonio Jannotta il quale, usando toni aspri, parlò di fallimento della precedente Direzione di concentrazione, promossa da Piccioni per coinvolgere i dossettiani nella guida del partito87. Questi infatti si erano dimessi e oggi la maggioranza di centro è, per forza di cose, divenuta essa stessa una corrente; ed è in questo momento che la sua maggioranza rivendica il diritto di guidare il Partito. Oggi il centro non può avere più alcuna fiducia nelle promesse dei dossettiani.
A queste dichiarazioni, recita il verbale, “Fanfani irritatissimo se ne va [il corsivo corrisponde a una sottolineatura dell’originale, nda.]“. Jannotta proseguì proponendo che Piccioni, leader del centro e della maggioranza, preparasse una nuova Direzione, mentre suggeriva che De Gasperi facesse entrare nel governo rappresentanti di tutte le correnti. Proprio nel momento più difficile per i dossettiani, ebbe però inizio il percorso che avrebbe condotto al loro rientro in Direzione. De Gasperi intervenne immediatamente dopo Jannotta, dicendosi dispiaciuto che “parole accese abbiano determinato un urto […] È ingenuo pensare come ha fatto Jannotta che gli estromessi dalla direzione vadano nel Governo”88. Il suo intervento favorì il rientro di Fanfani, che pronunciò subito un lungo discorso: chiede scusa del suo scatto […] Non tocca gli argomenti spinosi venuti fuori […] Problema del Partito: assume la responsabilità di aver fatto ogni sforzo per passare dalla formula Taviani a quella Gonella. Ritiene ancora che questa formula Gonella sia stata più felice di quella Taviani […] Se la maggioranza non è di questo parere, si passi ad altra formula […] Un ritorno alla formula Taviani comporta questa difficoltà psicologica: essere fuori dalla direzione significa creare un grave “handicap” alla collaborazione degli esclusi in altri settori. Non ammette nemmeno la formula Ravajoli “mista” perché superata dal fatto che c’è stata a tutt’oggi una formula Gonella.
Utilizzando un linguaggio da addetti ai lavori, Fanfani lanciò così un importante messaggio di disponibilità a entrare in Direzione. Formula Taviani voleva dire, infatti, dossettiani fuori dalla Direzione, mentre formula Gonella significava dossettiani dentro. Fanfani respinse invece la formula Ravajoli, che implicava un giudizio negativo sulla Direzione precedente e soprattutto sul ruolo svolto dalla corrente dossettiana. Meglio dunque restare alla vecchia formula Gonella, il che significava allontanare giudizi negativi sui dossettiani e tenerli dentro la Direzione89. La novità era duplice: in precedenza, infatti, Dossetti aveva spinto per la rottura della collaborazione con le altre correnti e l’uscita dalla Direzione. Con il suo intervento, Fanfani indicò indubbiamente una Direzione opposta, ma, intanto, era cambiato il quadro politico, la linea seguita precedentemente non appariva più proponibile, mentre le altre tendenze cercavano di spingere i dossettiani ai margini del partito.
Per non essere emarginata, la corrente dossettiana doveva accettare il progetto della maggioranza, allo scopo di cercare di salvare gli obiettivi che più aveva a cuore, come il rinnovamento dell’azione di governo. In quest’ottica Fanfani cercò di rovesciare la situazione sfavorevole, impegnandosi sul terreno indicato dalla relazione Gonella, l’unità e il rafforzamento del partito: “I comunisti convinti sono impermeabili. Ma nella loro massa elettorale qualcosa c’è da fare“. A destra, invece, occorreva recuperare orientamenti ancora fluidi. Fanfani valorizzò l’opera di “vitalizzazione” del partito già svolta dal vicesegretario Rumor, uno degli esponenti più in vista della “seconda generazione”, e sviluppò ampiamente la questione dei mezzi da utilizzare per contrastare capillarmente i comunisti, aumentare il numero degli iscritti, raggiungere i giovani. Ammise inoltre che occorreva proseguire la collaborazione con gli altri partiti e non isolarsi (pur senza farsi fregare dai “parenti”). Egli sgombrò il campo da molte critiche rivolte ai dossettiani e riuscì a prendere una significativa iniziativa politica, riportando se stesso e il suo gruppo al centro del dibattito interno alla DC. Dalla documentazione non emerge la reazione immediata di Dossetti davanti alla mutata posizione di Fanfani, ma i suoi interventi successivi fanno pensare a perplessità e disagio personale piuttosto che a dissenso politico od ostilità verso il compagno di corrente.

Da Dossetti a Fanfani

L’intervento di Fanfani fece molta impressione. Taviani intervenne immediatamente, riprendendone le idee sull’organizzazione del partito, ma aderì alla proposta Ravajoli: dossettiani in Direzione ma non nell’esecutivo. Taviani ipotizzò contemporaneamente di far entrare in Direzione anche i ministri, perché il partito potesse influire in modo più diretto sul governo, recuperando così una delle più tipiche istanze dossettiane. Umberto Merlin, invece, sottolineando la novità della posizione assunta da Fanfani, si spinse oltre: “Dopo il discorso di Fanfani di stamane pensa […] che si possa arrivare ancora ad una direzione di concentrazione”. Egli propose di respingere direttamente le dimissioni della Direzione guidata da Gonella90: alla fine di una lunga discussione, proprio la proposta Merlin sarebbe stata accolta, quasi all’unanimità, dal Consiglio Nazionale.
Contemporaneamente Merlin criticò Dossetti perché questi, su “Cronache Sociali”, si era espresso negativamente sulla legge dell’apparentamento dopo averla sostenuta come vicesegretario del partito. Anche se, inizialmente, la nuova posizione di Fanfani non implicava necessariamente un distacco da Dossetti, il dibattito che ne scaturì introdusse elementi di differenziazione tra i due, che qualcuno avrebbe utilizzato per contrapporre i due dossettiani. In questo senso sembra andare l’intervento di Piccioni91. Questi riconobbe che, riguardo al problema dei giovani, “Fanfani [aveva] detto delle cose giustissime”, ed egli si proponeva di “dilatare” quelle proposte. Invece a Dossetti riservò critiche severe. Nel partito, osservò Piccioni, le discussioni dovevano preparare al fare: altrimenti si scivolava nel “dilettantismo disquisitorio”. Egli dichiarò che non si pentiva di aver patrocinato una Direzione che accogliesse tutte le tendenze: era un tentativo che doveva essere fatto. Ma l’esperienza, dopo un avvio positivo, era fallita: occorreva capire perché. “Il nostro scopo – disse Piccioni – è raddrizzare la barca […] bisogna trovare un’altra formula direzionale. Fanfani mi è sembrato che invece concludesse stamane per una ripetizione dell’attuale formula”. Egli chiedeva a tutti i dirigenti del partito maggiore unità e, appellandosi al carattere cristiano della DC, affermò che il gioco delle correnti doveva avere chiari limiti. Perciò, si doveva far entrare tutti in Direzione, “ma questa formula perché non divenga dispersiva è condizionata all’accettazione delle deliberazioni insieme prese; e senza sottintesi e senza strascichi”, rispettando il vincolo di maggioranza. Tutto l’intervento di Piccioni si svolse dunque in polemica con Dossetti.
Anche Andreotti polemizzò esplicitamente con Dossetti92. Egli si dichiarò d’accordo con Gonella: il partito doveva essere considerato come una famiglia ed era perciò inutile cercare formule unitarie se poi ognuno faceva quello che voleva. Andreotti parlò di responsabilità nello sbandamento nel partito e di atteggiamenti contraddittori sulla legge delega da parte di membri della Direzione. “In questi mesi è accaduto qualcosa di serio che [sic] occorre ora rimediare”. Propose un ordine del giorno, firmato anche da Fanfani, che richiamava l’articolo 91 dello Statuto contrario alle tendenze93. “È tempo di finirla con le confusioni e con le riserve. Prega fraternamente Dossetti di contribuire a chiarire i reciproci rapporti fra membri dello stesso Partito”.
Il lungo dibattito di Grottaferrata giunse alla fine al suo epilogo94. Gonella ribadì – in polemica con Gronchi – l’urgenza di contrastare con più efficacia il comunismo anche attraverso un maggiore sforzo organizzativo. Egli cercò invece di recuperare Dossetti, attraverso un compromesso: accettare il rinnovamento del governo ma esigere una forte unità nel partito. A proposito del primo affermò: “si è fatto molto ma bisogna fare moltissimo. Dossetti ha detto che in fondo non c’è dissenso fra i motivi ‘fondamentalissimi’ dell’azione di Governo”. Riguardo al partito replicò: “‘esercito’ ha detto Dossetti; egli aggiunge una ‘comunità’ se non proprio una ‘ecclesia’”. “Comunità di affetti”, unità di fede e disciplina, che richiedevano una “Direzione di Salute Pubblica” capace di cooperare con il governo, già nei mesi precedenti principale preoccupazione di Gonella. Nello stesso senso si pronunciò De Gasperi, che sottolineò fortemente l’esigenza di compattare il partito. Egli “rinuncia[va] alla polemica diretta col discorso di Dossetti, perché rit[eneva] che non port[asse] a risultati pratici”, ma confessò di soffrire “fisicamente dei dissidi interni […] Il Partito più che milizia è spirito di sacrificio […] Occorre subordinare le proprie idee personali all’apostolato supremo della difesa della libertà politica e della libertà religiosa”. Nel partito doveva prevalere uno “spirito di unità realizzatrice”: De Gasperi “non nega[va] le tendenze”, ma queste dovevano costringersi in una “concordia discors”. Il presidente del Consiglio concluse con un appello: “caro Dossetti, se non saremo uniti saremo travolti tutti dalla stessa valanga”.
Tornando a discutere della Direzione, come Merlin anche Bettiol propose di respingerne le dimissioni95, Jannotta, si pronunciò contro questa soluzione96, mentre De Gasperi dichiarò di non ritenere possibile che le dimissioni fossero ritirate. Fu Piccioni a introdurre un argomento che, se confermato, avrebbe chiuso la discussione: si era “fatto di tutto per arrivare ad una direzione la più rappresentativa al massimo. Nelle conversazioni avute con Dossetti, l’invito è stato ripetuto. Dossetti ha obiettato per sé che non era disposto a collaborare in questo tipo di Direzione, perché fuori dalla sua sensibilità. Dossetti mirava invece ad una rapida, radicale modifica di Governo, indipendentemente dalla questione della Direzione”. Il rifiuto di Dossetti, peraltro non motivato da ragioni oggettive ma da una questione di “sensibilità”, sembrava impedire una Direzione di concentrazione. Piccioni concluse chiedendo a Dossetti di ripetere pubblicamente ciò che aveva detto in privato: “Dossetti accetta o no l’impostazione fatta da Bettiol? […] Parli e dica Dossetti”.
Ma Fanfani precedette Dossetti, forse per ritardare la risposta dell’interessato e per lasciare ancora qualche possibilità a una presenza dossettiana in Direzione. “È lieto di poter rispondere a Piccioni […] Qualunque sia la Direzione che esca da questo CN, egli non negherà ma intensificherà la sua collaborazione”. Egli si dichiarava però per la massima rappresentatività della Direzione e perciò favorevole alla proposta Bettiol. “Dossetti dovrà dire se, attraverso questo dibattito, le sue idee si sono chiarite. Perché sottovalutare l’importanza dell’odierno discorso del Presidente De Gasperi?”. Sulla scia di Fanfani, anche Ravajoli intervenne per favorire il ritorno del vicesegretario in Direzione, con una proposta diversa da quella del ritiro delle dimissioni, ma di significato politico analogo97. Scelba, invece, in sintonia con Piccioni, cercò di rendere più difficile un ripensamento di Dossetti, ricordando che non c’erano state solo le dimissioni di tutta la Direzione, ma anche quelle personali del vicesegretario e sottolineò una contraddizione fra i dossettiani: “è emerso un certo contrasto di valutazioni […] Ieri gli è sembrato che da parte di Dossetti questo contrasto è stato ribadito. Oggi Fanfani dice che egli e i suoi amici si impegnano a collaborare in pieno”98. Dopo Scelba, anche Elkan incalzò Dossetti per un chiarimento definitivo, mentre Gonella concluse questo giro di interventi con una ricostruzione più sfumata degli eventi precedenti e più favorevole a un ritorno dossettiano in Direzione99.
Tante pressioni raggiunsero lo scopo e Dossetti rispose agli appelli: Ora è certo che non si trova così sicuro di se stesso da poter dire sì o no. Dice però due cose: in ordine al problema sostanziale [del rinnovamento del governo] indubbiamente del cammino si è fatto; ma c’è da tener presente che di fronte alla proposta Bettiol-Branzi la Direzione si riunisca, si consulti e prenda una decisione. Un’altra cosa per quel che riguarda la sostanza dell’impegno, ripete che, in Direzione o fuori, egli è pronto a non scrivere un articolo di critica prima di un anno; comunque la cosa si risolva, non si veda una “manovra di corridoio”.
In questo modo, Dossetti apriva la strada a una riconferma della Direzione precedente. Andreotti, avvertendo che ormai si tornava a una Direzione di concentrazione, criticò “l’espediente Bettiol” e chiese un impegno chiaro da parte di tutti: “Dossetti ha un terribile temperamento: quello di mantenere sempre, anche non volendo, una certa ‘riserva mentale’. Vuol sapere se il Vice Segretario del Partito è solidale o no su quello che ha fatto la Direzione”. Taviani, invece, pur concordando con Andreotti sui problemi da questi sollevati, ritenne che la situazione sarebbe stata peggiore con una Direzione omogenea: la presenza di tutte le componenti rappresentava il male minore100. De Gasperi concluse la discussione: “Si voti sulla proposta di far riunire la Direzione perché riveda le sue decisioni”. La proposta fu approvata da tutti, con la sola opposizione di Gronchi, e nella successiva seduta notturna la Direzione ritirò le dimissioni. Apparentemente, il lungo Consiglio nazionale di Grottaferrata si concludeva con un nulla di fatto; in realtà, erano state poste le premesse di una svolta che avrebbe condotto a un nuovo governo, al ritiro di Dossetti e, più tardi, alla segreteria Fanfani.
Si è detto che, in questa vicenda, la linea seguita fino a quel momento da Dossetti venne subordinata al successo personale di Fanfani: secondo Baget Bozzo, il primo sbagliò profondamente sacrificando tutto all’affermazione governativa di quest’ultimo101. Ma la decisione di Dossetti di ritirarsi dalla DC si radica anzitutto nelle vicende che hanno preceduto la formazione del settimo governo De Gasperi. Le premesse di tale scelta emergono, infatti, dallo scontro con De Gasperi, che raggiunse il culmine nella primavera del 1951: lo scontro, insomma, non fu in primo luogo tra Fanfani e Dossetti, ma tra quest’ultimo e De Gasperi. In quelle circostanze Dossetti chiarì che egli e la sua corrente non potevano o non volevano prevalere nella DC, pur ribadendo fermamente che i contenuti della loro politica dovevano essere accolti perché espressivi delle ineludibili esigenze dello Stato moderno. In un certo senso, Dossetti ritenne di dover sacrificare se stesso per permettere l’affermazione delle sue posizioni e in tale luce le diverse traiettorie sua e di Fanfani appaiono più complementari che contrastanti. Ma questo progetto si sarebbe rivelato impraticabile dopo le elezioni amministrative del 1951.
La situazione, infatti, mutò profondamente dopo tali consultazioni che, di fatto, archiviarono il grande successo elettorale del 18 aprile 1948. Dal Consiglio nazionale di Grottaferrata, che si svolse subito dopo, scaturirono profonde novità che hanno aperto la strada a una successiva trasformazione della DC102, generalmente interpretate in chiave di rottura tra prima e seconda generazione, tra ex popolari e giovani provenienti dall’Azione cattolica. A Grottaferrata sarebbero state poste le premesse del partito della seconda generazione, ispirato dalla “coscienza dell’insostituibilità della DC […] più che un partito tra i partiti. La DC è l’asse non della politica, ma delle istituzioni italiane”, è il “partito/Stato”. In questa linea, sarebbe anche maturato quel “pragmatismo democristiano” che avrebbe condotto la DC a perdere qualsiasi legame con le sue radici cattoliche e ad accettare una subalternità ideale al comunismo: nel passaggio dagli ex popolari alla seconda generazione, insomma, la DC avrebbe perso l’anima. Ma come interpretare, in questo quadro, il successivo ritiro di Dossetti? Solo il “tradimento” di Fanfani, ispirato da una mera logica di potere, sembra in grado di spiegare contemporaneamente la sconfitta di Dossetti e la vittoria degli (ormai ex) dossettiani.
In realtà, sembra difficile rileggere le vicende democristiane dei primi anni cinquanta in chiave di abbandono del partito cristiano di De Gasperi, sostituito da un partito laico e modernizzante realizzato dagli ex dossettiani: un tale esito supporrebbe una curiosa inversione delle parti tra ex popolari, a cui i giovani attribuivano un eccesso di laicità, e “seconda generazione”, d’impronta più esplicitamente cattolica. Comunque, qualunque giudizio si voglia dare sul passaggio di consegne generazionale, la documentazione mostra che la strada verso il “partito pesante” è stata aperta dagli uomini della vecchia generazione. La trasformazione del partito, infatti, non è scaturita dalle analisi proposte da Dossetti in Direzione o dai suoi articoli su “Cronache Sociali”, anche se in parte le sue analisi sono state successivamente utilizzate dagli ex dossettiani. L’esigenza di rafforzare la DC anche attraverso un’organizzazione stabile si è imposta soprattutto in seguito alle elezioni amministrative del 1951 e il cambiamento del partito è stato conseguenza anzitutto di un declino della straordinaria mobilitazione degli anni precedenti, a cui la DC cercò di rispondere trasformando se stessa per poter disporre di maggiori risorse senza ricorrere ad aiuti esterni. Il ritiro di Dossetti dalla politica, perciò, non sembra collegabile a una vittoria di De Gasperi, ma piuttosto alla fine della stagione inaugurata dal 18 aprile 1948: dopo le elezioni del 1951, la contrapposizione tra De Gasperi e Dossetti intorno a opposte interpretazioni di quel successo perse gran parte del suo interesse. Analogamente, sarebbe riduttivo attribuire lo scivolamento della DC verso il pragmatismo al tradimento di Fanfani: al di là delle scelte dei protagonisti, dei loro errori o dei loro tradimenti, la “secolarizzazione” del partito è stata infatti indotta da trasformazioni che la DC non ha voluto ma subito.

Note

1 Francesco Malgeri, De Gasperi e l’età del centrismo (1948-1954), in Id., (a cura di), Storia della Democrazia Cristiana, vol. II, 1948-1954. De Gasperi e l’età del centrismo, Roma, Cinque lune, 1987, pp. 108 sg.

2 Cfr. Sergio Chillè, I riflessi della guerra di Corea sulla situazione politica italiana negli anni 1950-1953: le origini dell’ipotesi degasperiana di “democrazia protetta”, “Storia contemporanea”, ottobre 1987, n. 5, pp. 895-926; Guido Formigoni, La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 369-410; Mario Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Roma, Carocci, 2001.

3 Relazione del segretario politico Guido Gonella, Consiglio nazionale del 14 gennaio 1951, in Istituto Luigi Sturzo, Roma, Archivio Democrazia cristiana, DC Consiglio Nazionale [d’ora in poi ILS, DC, Cn], sc. 10, fasc. 22.

4 Ludovico Montini richiamò l’attenzione sulle ripercussioni per il Vaticano di un coinvolgimento dell’Italia in un eventuale conflitto Est-Ovest (verbale del Consiglio nazionale del 15 gennaio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 10, fasc. 22), mentre Achille Ardigò fece cenno alle posizioni assunte da Primo Mazzolari e dal pacifismo cattolico, sottolineando i limiti della politica estera di Carlo Sforza e la necessità di bilanciare la spesa per la difesa con spese sociali (verbale del Consiglio nazionale del 15 gennaio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 10, fasc. 22). “È del parere – riferisce il verbale – che noi dobbiamo ancora puntare in una soluzione europea del Patto Atlantico”. Secondo Formigoni (La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale, cit., p. 399), queste tendenze contribuirono a spingere De Gasperi verso un relativo distacco dagli americani, attribuendo a un più intenso impegno europeista il senso di una ricerca di maggiore autonomia, pur in un quadro di fedeltà all’Alleanza atlantica.

5 Sull’opposizione dei partiti di sinistra, cfr. S. Chillè, I riflessi della guerra di Corea, cit., p. 921.

6 Verbale della Direzione nazionale del 9 gennaio 1951, in Istituto Luigi Sturzo, Roma, Archivio Democrazia cristiana, DC Direzione nazionale [d’ora in poi ILS, DC, Dir. naz.], sc. 8, fasc. 128. Sul rapporto tra i dossettiani e Pella si veda Piero Roggi, I cattolici e la piena occupazione. L’attesa della povera gente di Giorgio La Pira, Milano, Giuffrè, 1983.

7 Santoro Passarelli dichiarò che il “CN non era finito bene” (verbale della Direzione nazionale del 24 gennaio 1951, in ILS, DC, Dir. naz., sc. 8, fasc. 128).

8 Verbale della Direzione nazionale del 24 gennaio 1951, in ILS, DC, Dir. naz., sc. 8, fasc. 128. Elkan affermò che il Consiglio nazionale era “stato favorevolissimo alla Direzione ma si [era] schierato contro il governo […] la questione della delega potrebbe creare una situazione spinosa” (verbale della Direzione nazionale del 24 gennaio 1951, ILS, DC, Dir. naz., sc. 8, fasc. 128, p. 1).

9 Verbale della Direzione nazionale del 24 gennaio 1951, in ILS, DC, Dir. naz., sc. 8, fasc. 128.

10 Dossetti chiarì ulteriormente la sua posizione, esprimendo disaccordo sulla richiesta di Gonella – che avrebbe voluto comunicare al gruppo parlamentare una posizione della Direzione DC complessivamente favorevole alla linea del governo – e rifiutò anche la proposta di Rumor di distinguere tra strumento della delega e l’uso che ne sarebbe stato fatto.

11 S. Chillè, I riflessi della guerra di Corea, cit., p. 921. Secondo Baget Bozzo, Fanfani era già da allora in urto con Dossetti, ma Leopoldo Elia è di parere diverso, cfr. Giovanni Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e Dossetti 1945-1954, vol. II, Firenze, Vallecchi 1974, p. 335.

12 Intervento di Cingolani (verbale della Direzione Nazionale dell’8 febbraio 1951, prima stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133).

13 Intervento di Gonella (verbale della Direzione Nazionale dell’8 febbraio 1951, prima stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133).

14 Intervento di Gonella (verbale della Direzione Nazionale dell’1 febbraio 1951, seconda stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133).

15 “Nessuno non ha detto di fare nulla [sic], tutti che occorre cambiare. Non tutti sono d’accordo col tempo e sulla quantità. Parte da una premessa diversa: quella di una situazione economica che sollecitava una politica economica nuova […] – la delega come premessa di una nuova politica – la necessità di cambiare il governo deriva da quella che è la premessa fondamentale: vera e propria situazione di guerra – condivide in pieno l’intervento di Taviani – o Bettiol o Taviani – […] conclude che secondo lui, non solo il gruppo ad essere inquieto ma è anche il Paese – che non ha fiducia in uno Stato che non è capace di provvedere alla difesa e alla tutela degli interessi generali – è contrario nel modo più categorico ad un semplice ritocco […] dare al Presidente mandato in bianco perché egli dimostri di essersi reso consapevole della necessità di cambiare […] se però dicesse di provvedere dopo le elezioni concluderebbe che il presidente non lo capisco – e ancora un’altra osservazione che non si pensi ad allargare a destra […] possibilità di provvedere in un tempo ragionevole – nei settori della politica economica, difesa, esteri – ma non dopo le elezioni” (verbale della Direzione nazionale dell’1 febbraio 1951, prima stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133).

16 Gonella dichiarò il suo accordo con Taviani e Dossetti, in polemica con “il solito parlamentarismo” (verbale della Direzione

nazionale

dell’1 febbraio 1951, prima stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133).

17 Verbale della Direzione Nazionale dell’8 febbraio 1951, prima stesura, in ILS, DC, Dir. naz., sc. 8, fasc. 133.

18 Verbale della Direzione Nazionale dell’8 febbraio 1951, prima stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133.

19 “Non ritira il suo consenso alla delega ma crede che la delega è adeguata alla politica dell’attuale Ministro del Tesoro, che è una politica liberale, assolutamente inattuale di fronte ai problemi di oggi e che ci attendono – gli industriali di oggi appoggiano la delega di oggi – su questo tipo di delega egli non è d’accordo” (verbale della Direzione nazionale dell’8 febbraio 1951, prima stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133). In un’altra stesura del verbale si legge: “Non ritira il suo consenso alla delega ma siccome ritiene che la medesima sia adeguata alla politica dell’attuale Ministro del Tesoro, politica di marca liberale, assolutamente inattiva […] non può essere d’accordo con questo tipo di delega” (verbale della Direzione nazionale dell’8 febbraio 1951, seconda stesura, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 133).

20 Giovanni Mantovani, Gli eredi di De Gasperi. Iniziativa democratica e i ‘giovani’ al potere, Firenze, Le Monnier, 1976, p. 7. In quest’occasione, i dossettiani si uniformarono alla disciplina di partito, malgrado la contrarietà, più volte manifestata, a esprimere un voto di fiducia al governo. “Ieri sera io e i miei amici abbiamo votato in aula favorevolmente al progetto di legge per il riarmo unicamente per considerazioni di carattere generale” (intervento di Dossetti, verbale della Direzione nazionale del 7 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128).

21 Cfr. intervento di Tupini (verbale della Direzione nazionale del 7 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128).

22 Intervento di Taviani (verbale della Direzione nazionale del 7 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128). Cfr. G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, vol. II, cit., p. 336.

23 “Non si tratta […] di una questione dossettiana che non esiste, o di una questione di centro, ma di una questione più vasta e cioè che noi come partito ci siamo trovati a fare da [incomprensibile] a un governo che non era posto in discussione dalle correnti interne del partito ma dai suoi stessi componenti” (intervento di Dossetti, verbale della Direzione nazionale del 7 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128).

24 Dossetti ribadì la sua richiesta: “modificare la politica economica in connessione con quella militare e fare la crisi prima delle elezioni” (verbale della Direzione nazionale del 7 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128). Cfr. G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, vol. II, cit., pp. 339-340.

25 Dossetti tornò però a ribadire: “Non è stato un atto di un uomo garante dell’unità […] quello del Presidente col fare le dichiarazioni riportate dai giornali” (verbale della Direzione nazionale del 7 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128).

26 Malgrado diversi tentativi di composizione o di rinvio, la questione delle “tendenze” venne considerata ormai indilazionabile. Poiché la situazione sembrava rendere ormai inevitabili le dimissioni della Direzione a causa di un contrasto insanabile al suo interno, si tentò di rimandare la discussione a un momento più sereno, adducendo anche le non buone condizioni di salute di Dossetti. Ma quest’ultimo si oppose e Taviani sottolineò che “l’on. Dossetti […] con le sue dichiarazioni ha esasperato certe sue posizioni delle quali non si può non tener conto”. In particolare, ribadì l’ex segretario, era urgente affrontare la questione delle correnti all’interno del partito.

27 Verbale della Direzione nazionale dell’8 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128. Gonella ribadiva in questo modo la questione centrale sollevata per primo da Taviani il giorno precedente.

28 Verbale della Direzione nazionale dell’8 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128.

29 Verbale della Direzione nazionale dell’8 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128. Anche nel seguito della discussione, provocato da varie accuse – tra cui quella di “vittimismo” -, Dossetti ribadì “di non aver costituito e di non voler costituire in seno al Partito nessun gruppo di tendenza. Ripete di essere convinto che se per ipotesi il gruppo che a lui si attribuisce dovesse conquistare la maggioranza il partito subirebbe una contrazione che ne restringerebbe la base”.

30 Verbale della Direzione nazionale dell’8 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128.

31 Gonella intervenne subito dopo per protestare contro le accuse formulate da Dossetti verso gli anziani (verbale della Direzione nazionale dell’8 marzo 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128).

32 Scopo principale della lettera era protestare contro l’attività politica che la Direzione aveva continuato a compiere malgrado la decisione delle dimissioni. Dossetti dichiarò che si sarebbe immediatamente ritirato dalla Direzione se le imminenti elezioni amministrative non gli avessero imposto un gesto di responsabilità. Davanti alle proteste suscitate e alla richiesta di ritirare la sua lettera, Dossetti ribadì la sua volontà di dimettersi, a prescindere dalle decisioni degli altri (verbale della Direzione nazionale dell’11 aprile 1951, in ILS, DC, Dir. Naz., sc. 8, fasc. 128).

33 Giovanni Tassani, La Terza generazione. Da Dossetti a De Gasperi, tra Stato e rivoluzione, Roma, Edizioni Lavoro, 1988, p. 27.

34 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, vol. II, cit., p. 339.

35 Sul significato di quelle elezioni, cfr. Mario G. Rossi, Una democrazia a rischio. Politica e conflitto sociale negli anni della guerra fredda, in Francesco Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, p. 977.

36 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

37 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

38 Intervento di Enrico Sparapani (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

39 Dopo le parole di Sparapani, il verbale del Consiglio nazionale recita: “Interruzione di De Gasperi” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

40 Taviani parlò della dimensione internazionale del comunismo: pure in Francia, osservò, le elezioni non avevano visto diminuire i comunisti (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

41 Taviani sottolineò per esempio: “il Pci ha un bilancio di un miliardo al mese. La DC ha un bilancio mensile che non supera i 100 milioni” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

42 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

43 Il rapporto iscritti-elettori nel Pci, egli ricordava, era di uno a cinque, mentre un ruolo molto importante era svolto anche dai sindacati (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

44 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

45 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

46 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

47 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

48 Piccioni: “La sensibilità degli elettori non è più quella del 18 aprile” (verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

49 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23. Nel Consiglio nazionale di Grottaferrata, De Gasperi non intervenne esplicitamente sul problema organizzativo della DC e furono piuttosto esponenti a lui vicini che introdussero l’esigenza di una nuova organizzazione, a cominciare da Gonella, anche in quel Consiglio in profonda sintonia con il presidente del Consiglio: venne da questi riproposto come segretario politico.

50 A Grottaferrata, quella di Gronchi fu sicuramente l’obiezione più esplicita al rafforzamento “tecnico” dell’organizzazione democristiana proposto da Gonella. È probabile però che le resistenze al progetto fossero più diffuse, anche se rimasero in gran parte sotterranee. Si possono intuire, per esempio, in quanti pensavano a uno stretto collegamento tra partito e mondo cattolico, come Andreotti, e, sulla sponda opposta, i dossettiani.

51 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23. Anche su questo terreno, Tupini si dichiarò totalmente d’accordo con Gonella (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

52 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

53 Romani osservò tra l’altro che “mentre da una parte si fa dell’anticomunismo, dall’altra si legifera per cristallizzare alcune posizioni di privilegio”.

54 De Gasperi replicò vivacemente, soprattutto per sottolineare che una legge limitativa degli scioperi era urgente (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23). Su questo punto egli ottenne qualche consenso da parte di altri sindacalisti, come Armando Sabatini, che però condivideva le posizioni di Romani sul rapporto tra sindacato e partiti (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23). Secondo Santoro Passarelli non si poteva limitare la libertà del sindacato perché disturbava il manovratore e non si doveva pretendere dal sindacato una politica interclassista (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23). Successivamente, Andreotti “si dichiar[ò] sbalordito dalle idee esposte da Santoro Passarelli e da Romani. Come si fa a dire che il sindacato libero non può essere che classista; e allora […] il nostro interclassismo dove va a finire?” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

55 Per Santoro Passatelli, la legge proposta avrebbe favorito la Cgil (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23). De Gasperi gli replicò però che sarebbe stato impossibile adottare una legge non rispettosa del principio di proporzionalità che favoriva la Cgil: il governo deve rispettare la Costituzione, egli affermò (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23). Il dibattito proseguì con interventi di Leopoldo Rubinacci, favorevole alla legge sindacale (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23), e di Giuseppe Rapelli, secondo cui la leva sindacale era necessaria per fare politica sociale in un quadro di rigidità monetaria (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

56 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

57 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

58 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23. Contro le leggi eccezionali anti-Msi si era già pronunciato anche Merlin.

59 È il caso di Paolo Cappa, di cui il verbale riportata questa frase: “Non è d’accordo con Scelba sulla necessità di rafforzare la repressione” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

60 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

61 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

62 L’obiettivo era evitare che le elezioni politiche del 1953 diventassero “quella ‘sfinge’ che alcuni di noi temono” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

63 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

64 De Gasperi “conviene sulla necessità di accentuare il colore nazionale della politica estera […] pur senza arrivare al nazionalismo”, cosa non facile nel contesto della solidarietà atlantica. “Occorre fare uno sforzo per insufflare nei giovani l’ideale della comunità internazionale” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

65 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

66 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

67 Ma, aggiunse in polemica con i dossettiani, “occorre stare attenti a porsi come causa e non come conseguenza di tale unità dei cattolici. Altrimenti si apre la strada a inevitabili scissioni” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

68 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

69 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

70 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

71 Sul rispetto di De Gasperi verso i principi costituzionali ha insistito M. Del Pero, L’alleato scomodo, cit., pp. 33-34.

72 Sull’atteggiamento della DC verso De Gaulle, seppure per un periodo diverso, ha richiamato l’attenzione Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 313 sg.

73 Piccioni: “La sensibilità degli elettori non è più quella del 18 aprile” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

74 G. Mantovani, Gli eredi, cit., pp. 11-13.

75 Secondo Montini, al ministero del Tesoro spettava una funzione di controllo ma non di indirizzo, mentre la politica estera non poteva essere fatta solo dal ministero degli Affari esteri, per non tornare a essere succubi del nazionalismo del passato (verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

76 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

77 “Dice a Lazzati che egli e Gonella sono stati a provocare la discussione sul Governo. Non è colpa loro se non tutti hanno raccolto l’invito. Si parli del Governo, ma per temi specifici, perché egli non può ammettere che i suoi colleghi di governo siano messi indiscriminatamente sul banco degli imputati. Protesta contro questo ‘balcanismo’” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

78 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 2 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

79 Sulla stessa linea si collocò anche un nuovo intervento di Gronchi, dedicato tra l’altro al ruolo dell’industria pubblica, mentre Pella difendeva l’operato dell’esecutivo.

80 Come sintetizzò Tupini, in profonda sintonia con Gonella, i risultati elettorali mostravano che, a distanza di tre anni dal 1948, la democrazia aveva perso molti amici, i quali avevano scelto per il radicalismo delle estreme. Una novità allarmante era costituita in particolare dal rafforzamento della destra, dovuto soprattutto alla paura del comunismo: era perciò urgente dimostrare nei fatti che la democrazia era in grado di battere il comunismo. Perciò, non si doveva mettere in discussione la linea del partito, ma gli strumenti di attuazione, respingendo contemporaneamente le tentazioni del “monocolorismo” e proseguendo su una linea di collaborazione con i laici (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

81 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale dell’1 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

82 Verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23. De Gasperi ribadì però anche la necessità di proseguire la linea Pella. In questo modo egli anticipò le linee che avrebbe seguito nella successiva crisi di governo: rinnovamento dell’esecutivo, allontanamento di Sforza, spostamento di Pella al Bilancio, mentre Fanfani passava all’Agricoltura.

83 Oltre a polemizzare con la destra interna e a criticare Dossetti, egli prese allora le distanze anche da Gronchi, per le ipotesi di apertura al Psi formulate dal presidente della Camera (verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

84 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 29 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

85 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

86 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 29 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

87 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

88 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

89 Fanfani adombrò una sorta di “sciopero” – ma in seguito avrebbe smentito questa minaccia – nel caso che la sua corrente fosse rimasta esclusa dalla guida del partito (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

90 Merlin invece respinse la proposta di inserire ministri nella Direzione, perché gli uomini di governo dovevano essere al di sopra dei partiti (verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 30 giugno 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

91 Verbale dattiloscritto Consiglio Nazionale del 30 giugno 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

92 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23.

93 Andreotti rimproverò a Fanfani l’osservazione: “‘Non sperate di farci fuori dalla Direzione e poi di chiamarci a collaborare in altri siti’. Questa affermazione è grave” (verbale dattiloscritto del Consiglio

nazionale

dell’1 luglio 1951, seduta pomeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

94 Si discusse anzitutto l’ordine del giorno Taviani, che proponeva l’inserimento di ministri nella Direzione, ma Piccioni si dichiarò contrario per evitare di sottoporre i rappresentanti del governo al controllo del partito (“Dissente dall’impostazione Dossetti: non controllori ma collaboratori”). In ogni caso, dichiarò Piccioni, la questione non era “più attuale dopo i colloqui avvenuti ed i loro risultati”: i sondaggi informali per convincere Dossetti a entrare in Direzione avevano infatti dato esito negativo. Ravajoli invece difese l’inserimento di ministri in Direzione: “la proposta fatta a Gronchi, Dossetti e Fanfani di entrare in Direzione era determinata dal desiderio di aumentare il prestigio del partito. Ora la mancata partecipazione dei suddetti convalida, se mai, l’esigenza di far entrare al loro posto i Ministri“. Dossetti, invece, si dichiarò d’accordo con le conclusioni di Piccioni, malgrado l’evidente contrapposizione tra i due – “ritiene poco opportuna la presenza dei ministri in Direzione” – mentre, per Andreotti, l’ordine del giorno Taviani era “proceduralmente improponibile“. Alla fine la proposta Taviani venne respinta, ma De Gasperi si dichiarò favorevole a una successiva ipotesi Ravajoli, tendente a far entrare in Direzione almeno Scelba e Piccioni come invitati con funzioni consultive, per svolgere un ruolo di collegamento permanente tra il partito e il governo (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

95 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23. Anche Branzi si dichiarò d’accordo con Bettiol.

96 Verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23. Sulla stessa linea si schierò anche Gronchi.

97 “È avvenuta una schiarita […] dopodiché, se Dossetti è disposto, che cosa ci impedisce di prendere il toro per le corna […] arrivando ad una Direzione rappresentativa?” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

98 “Dossetti, è vero o non è vero che si è personalmente dimissionato?” (verbale dattiloscritto del Consiglio Nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23).

99 Elkan affermò: “le dimisioni ci furono, checché ne dica Ravajoli”; Gonella invece disse: “Dossetti non ha dato le dimissioni. Le abbiamo date tutti potenzialmente” (verbale dattiloscritto del Consiglio nazionale del 3 luglio 1951, seduta antimeridiana, in ILS, DC, Cn, sc. 11, fasc. 23). In realtà, come risulta dai verbali precedenti, Dossetti aveva dato le dimissioni, anche a prescindere da quelle dell’intera Direzione.

100 Secondo Taviani, lo sviluppo delle correnti avrebbe potuto mettere in crisi il partito: occorreva perciò una soluzione che ne bloccasse gli effetti devastanti. Nei mesi precedenti, dopo averla inizialmente favorita, egli aveva manifestato perplessità verso una Direzione di concentrazione, ma alla fine di quella lunga vicenda gli sembrò che comunque una simile soluzione sarebbe stata la più adatta per contrastare il pericolo rappresentato dallo sviluppo delle correnti e dalla frammentazione del partito. Una Direzione omogenea, infatti, avrebbe pienamente legittimato le tendenze: la presenza di una Direzione dominata dalla sola corrente centrista avrebbe provocato “la radicalizzazione delle altre” (cfr. G. Mantovani, Gli eredi, cit., p. 10).

101 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, vol. II, cit., pp. 345-347.

102 G. Baget Bozzo, Tesi sulla DC, Bologna, Cappelli, 1980, pp. 52, 84. Secondo Baget Bozzo, “la vera DC, quella del trentennio, quella della sicurezza dell’egemonia, [compare] soltanto quando, nel ’54, prendono la Direzione del partito che fu di Sturzo gli uomini formati nell’Azione cattolica degli anni trenta” (ivi, p. 52). Cfr. anche ivi, pp. 62-63. Peraltro, come si è già accennato, le ipotesi del “tradimento” fanfaniano o di una rottura radicale tra Dossetti e Fanfani appaiono contraddittorie con la tesi che, a partire dagli anni cinquanta, la “seconda generazione” ha soppiantato completamente la prima,”fondando” un partito completamente diverso da quello sturziano.

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