La messa in crisi delle banche viene da lontano
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(Articolo pubblicato in: La Discussione, 26/01/2006)

(Per approfondimenti si veda anche: “Il momento di Hyman Minsky o il momento di Willy il Coyote? In quale fase realmente si trova la crisi finanziaria internazionale, volge alla fine o è solo all’inizio?”  – 1/4/2009)


C’era una volta il buon sistema bancario italiano, saldamente regolato dalla cosiddetta legge bancaria del 1936-39, nella quale all’articolo 1 del primo decreto della serie si proclamava che “la raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e l’esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico“. L’attività bancaria era una delle più regolamentate del paese a cominciare dall’articolo 47 della Costituzione. Dal 1947 le funzioni di vigilanza del sistema bancario passarono dall’Ispettorato per la Difesa del Risparmio e per l’Esercizio del credito alla Banca d’Italia, sorta, nella forma attuale, nel 1926.
Con la liberalizzazione delle transizioni finanziarie, nel luglio 1990, e il completamento del mercato unico, nel 1992, si aprì la fase della convergenza delle economie europee verso l’e economico monetaria. Un affare troppo ghiotto che le grandi famiglie del capitalismo italiano non intendevano lasciare nelle mani dello Stato, proprietario di quasi tutto il sistema bancario italiano. Tanto che facevano scrivere da autori e giornalisti compiacenti come Turani: “visto che lo Stato è anche padrone (oltre che delle tre BIN) della BNL e di quasi tutto il resto del sistema bancario italiano, non credo che se perdesse il controllo di una o due banche cascherebbe il mondo“. Proprio la BNL, posseduta dal Tesoro, sembrava essere l’istituto più esposto agli attacchi di certi ambienti vetero capitalisti in seguito allo scandalo dei 3500 miliardi prestati dalla sua filiale di Atlanta all’IRAQ.
Si cominciavano a contrapporre, armi alla mano, i due nuclei di potere cui facevano capo il Salotto Buono di Cuccia, Agnelli e amici, e i politici romani, rappresentati prevalentemente da DC e PSI. Il primo dei due nuclei, allora denominato Partito MiTo Italiano PMTI, ossia dell’asse Milano Torino, postulò con convinzione l’idea che le grandi imprese industriali dovevano avere la libertà di acquisire il controllo delle banche per migliorarne l’efficienza, per ricapitalizzarle e per apportare spirito imprenditoriale. La Banca d’Italia avrebbe dovuto lasciar fare. Carlo Azeglio Ciampi, allora Governatore dell’istituto di vigilanza, sostenne con coerenza che i rischi di un conflitto di interesse sarebbero stati troppo alti in caso di presa di controllo delle banche da parte delle imprese e con questa convinzione dette inizio alla guerra contro coloro che miravano alla neutralizzazione delle leggi antitrust o bancarie.
Analoghi attacchi erano stati respinti nel 1986, quando i gruppi facenti capo ad Agnelli e De Benedetti tentarono di entrare nel settore bancario, la Banca d’Italia impedì loro di acquisire la Banca d’America e d’Italia (BAI), che contava 99 sportelli nelle province ricche del centro nord. Al principio del 1989 Agnelli propose il controllo delle banche da parte dell’industria in forma collettiva, in modo che ciascuno avesse posseduto un pacchetto minoritario, secondo il modello Mediobanca. Il professor Mario Monti, allora membro del consiglio di amministrazione di FIAT e Generali, firmò in quel periodo una serie di articoli sul Corriere della Sera in cui sosteneva che in un mondo ideale banche e imprese dovrebbero rimanere separate ma che era inevitabile un apporto di ricapitalizzazione e di management da parte delle imprese.
La Banca d’Italia rispose precisando che nel sistema bancario italiano c’era un eccesso di capitale di oltre 20000 miliardi e che le poche banche sottocapitalizzate avevano bisogno di non oltre 3000 miliardi, allora disponibili all’interno del sistema bancario stesso. La politica da incoraggiare era quella delle fusioni e delle concentrazioni. Il senatore Guido Rossi sostenne che per una impresa mettere le mani sul sistema bancario sarebbe stato uno degli investimenti meno redditizi, che non poteva avere giustificazioni se non quella di rendere le banche ancelle del sistema industriale, al prezzo della perdita di indipendenza e autonomia.. I grandi industriali volevano far regredire il sistema bancario italiano all’epoca dei Robber Barons e, come i Rockfeller, Gould e Morgan intendevano avere la mano libera di svuotare le banche per finanziare le proprie industrie.

 

 

Il settore pubblico dimostrò la sua capacità di gestione realizzando la fusione tra Istituto San paolo e CREDIOP, coinvolgendo in un secondo momento anche BNL, INA e INPS. Fu creato un polo bancario con oltre 10000 miliardi di attivo, una partecipazione nella Hambros di Londra e una struttura di poco inferiore a quella della Deutsche Bank. Gli strali dell’allora presidente di Confindustria non si fecero attendere, dichiarò che l’INPS avrebbe dovuto fare solo previdenza e non gestire una banca. Cuccia nel 1991, durante una rie ebbe a dichiarare: ” bisogna fare come al tempo della guerra, come avevamo tramato allora perché l’Italia perdesse la guerra al fine di cacciare i fascisti, così oggi dobbiamo operare per spazzare via questa classe politica”.
Mani Pulite stroncò sul nascere anche il progetto di realizzazione dei grandi poli bancari, COMIT e CREDIT furono le prime ad entrare nella sfera di controllo di Cuccia, Mediobanca e FIAT acquistarono inoltre, praticamente a saldo, Telecom e Tim, Imi e San Paolo, Fondiaria e Montedison.
A quel punto i grandi gruppi capitalistici italiani hanno iniziato a farci vedere quanto fossero più bravi dello Stato nella gestione dell’economia e dei settori strategici. Infatti da allora si sono moltiplicati gli scandali bancari e le truffe a danno dei risparmiatori, i dissesti industriali si sono moltiplicati e l’Italia è diventata terra di conquista per le imprese straniere, colonizzata, in tutti i settori, da spagnoli, inglesi, olandesi, francesi, tedeschi e americani, il sistema paese ha perso posizioni nel panorama economico mondiale e ci avviamo a gran velocità ad essere sorpassati da paesi che solo dieci anni fa erano terzo mondo, ormai tagliati fuori dalle grandi alleanze strategiche internazionali.
Questi sciagurati pseudoindustriali falliti hanno ridotto il paese a una pura espressione geografica (n.d.a. definizione di Geronimo), mi chiedo quale condanna meritino, oltre quella sociale, e perché giornalisti imbecilli continuano ad intervistarli su temi di economia e finanza, credo che anche l’ultima facoltà universitaria di economia italiana non consentirebbe loro di essere promossi nemmeno al più semplice esame complementare tra quelli previsti.

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