Carmine Forcella. La Resistenza di un carabiniere a una grande ingiustizia.
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Carica

Un esempio contemporaneo di resistenza, all’ingiustizia, al sopruso, alla scorrettezza, alla prevaricazione di certi superiori. E’ un racconto un po’ lungo, apparentemente anacronistico, ma straordinariamente attuale, di una vicenda di coraggio e rispetto, per il proprio lavoro di uomo dell’Arma, di padre e marito. Un esempio per la nostra generazione, che può ispirare anche a rialzare la testa dal giogo pesante sotto il quale ci ha messo la storia contemporanea e una classe dirigente del tutto inadeguata, se non collusa con interessi che non sono quelli del popolo italiano. (Danilo Stentella, C. a. 103° Corso)

Carmine Forcella, è nato nelle campagne di Atri (TE) il 6 dicembre 1946 e lì è rimasto fino a 17 anni facendo il contadino, fino a quando con un suo amico nel 1964 decise di fare domanda di arruolamento nell’Arma dei Carabinieri. Nell’Arma ha raggiunto il massimo grado per i sottufficiali, dimostrando una inclinazione per i compiti di polizia giudiziaria. Carmine era affascinato dallo scontro fra le intelligenze di quelli che delinquono con quelle di chi persegue. Ma chi persegue parte svantaggiato arrivando dopo e dovendo ricostruire l’evento fino ad arrivare ad assicurare alla giustizia gli autori. Carmine si era convinto che l’Arma dei Carabinieri fosse una Istituzione dello Stato al servizio del cittadino, del più debole.

Dopo la scuola sottufficiali fu mandato a Como in forza al nucleo investigativo, quindi alla polizia giudiziaria presso la Procura della Repubblica di Como, dove affinò il suo mestiere svolgendo indagini. Nel 1985 fu trasferito a Cantù, dove assume il comando nel Nucleo Operativo e Radiomobile. In quella città ebbe la fortuna di collaboratori molto efficienti e i risultati letteralmente piovvero a grappoli. In quegli anni l’informatizzazione iniziava a consentire di immagazzinare molti dati affinché nulla o quasi potesse sfuggire al processo di indagine. Da dicembre 1985 al 15 giugno 1994 il suo reparto trasse in arresto 758 persone, e non solo ladruncoli. Il Tribunale di Como praticamente lavorava su quello che produceva Cantù, tanto che la criminalità se ne risentì e decise che Carmine doveva ”saltare”, perché impediva di delinquere tranquillamente.

Iniziarono le intimidazioni, prima un tipo cercò la sua casa perché lo voleva gambizzare, mettere su una sedia a rotelle, poi si informò sulla scuola frequenta dalla figlia. Ma non riuscì ad attuare il suo piano perché fu arrestato. Quel losco emissario decise allora di usare l’arma più subdola, si pentì e rivelò, in coro con un altro compare, qual era l’organizzazione della ‘ndrangheta in Lombardia del clan Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica. Purtroppo la magistratura non era pronta ad affrontare con serenità l’epoca del pentitismo della prima metà degli anni ’90 e anzi diventò ostaggio della criminalità pentita. Il pentito era in grado con le sue rivelazioni di mettere in cattiva luce il maresciallo Carmine Forcella, che gli aveva dato così tanto fastidio sottoponendolo a perquisizioni e sequestrandogli degli oggetti di valore e dichiarò che “si diceva della disponibilità del maresciallo Forcella ad aiutare l’organizzazione dei fratelli … si sapeva che era al soldo del ‘locale’ di Guanzate“. Mentre il secondo pentito aggiungeva, bontà sua, “non sono a conoscenza di episodi di corruzione del maresciallo Forcella“. Il primo pentito riferisce che addirittura il maresciallo Forcella aveva tenuto a battesimo la figlia di un tizio risultato pure lui appartenere al clan Mazzaferro.

Gli accertamenti svolti per incarico del magistrato accertarono che i pentiti avevano mentito, ma ciò nonostante il magistrato rimase sordo e cieco alle risultanze investigative e ordinò una perquisizione. Il 15 giugno 1994, alle ore 6.30, suonò il citofono di casa Forcella. Di mattina presto può essere foriero di brutte notizie. E così Carmine si trova a subire la perquisizione, un atto che non gli è mai piaciuto eseguire, perché dovendo mettere le mani nell’intimità altrui ne percepiva il disagio.

Aperta la porta entrò Adriano (chiameremo così il comandante della compagnia Carabinieri di Cantù in quel 15 giugno 1994) con altri in borghese, risultati poi essere carabinieri di Milano. Sono arrivati per eseguire una perquisizione locale (domiciliare) e personale su provvedimento della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano per violazione dell’art. 416 bis del codice penale, in altre parole associazione per delinquere di stampo mafioso. Eccolo associato a quelli che aveva sempre perseguito. L’ipotesi di tale reato consente al P.M. e alla Polizia in genere ampia facoltà d’azione con termini dilatati a dismisura tenendo sulla graticola persone assolutamente innocenti che impotentemente subiscono. La perquisizione, ovviamente, fu estesa a tutto quanto di sua pertinenza, quindi anche all’ufficio in caserma, dove i ragazzi presenti in sede per il turno di servizio assistettero sbalorditi all’atto, per quel poco che era loro consentito capire. Non potevano credere che chi li aveva guidati, istruiti, protetti, avesse potuto aver fatto chissà quali mascalzonate senza che loro si fossero mai accorti di nulla. Forcella era tramortito, avvilito, anche se allora ancora non lo sapeva, la sua carriera militare era finita lì, quella mattina del 15 giugno 1994. Quando il suo avvocato arrivò esordì con un ”Che c’è Carmine, chi hai arrestato questa volta?”; “Nessuno, Pasquale, questa volta sono io che ho bisogno di te”.

Molti anni dopo Forcella apprenderà che quella mattina il comandante Adriano prima di recarsi da lui aveva ordinato all’addetto alla centrale operativa di inviare delle pattuglie del radiomobile sotto la sua abitazione, ma l’operatore si era rifiutato di farlo. Adriano sapeva che Forcella era innocente, era stato lui a fare i riscontri alle dichiarazioni dei pentiti e aveva riferito le risultanze negative al magistrato, ma voleva lo show, bisognava distruggere moralmente Forcella. Forcella si scontrò contro una scala gerarchica dell’Arma assolutamente refrattaria, scala gerarchica che fino ad allora si era avvantaggiata dei lavori portati a termine da lui e dai suoi uomini, traendone benefici per le carriere, la stessa linea gerarchica che fino a quel momento lo aveva considerato il migliore investigatore della Lombardia e oltre.

Passato il primo momento di scoramento Carmine decise di conoscere il più possibile della tragica situazione che si trovava a vivere, quindi passare al contrattacco, ma non riuscì ad ottenere informazioni utili. Ancora più sconfortato il 17 agosto 1994 decise di abbandonare l’Arma motivando così la decisione: “Profondamente deluso dall’azione della linea gerarchica, che, senza alcuna ponderatezza, ha immediatamente dato ampio credito alle dichiarazioni di un pentito, non tenendo in alcuna considerazione le ampie giustificazioni prodotte, né volendo attendere l’esito della vicenda giudiziaria almeno della fase indagini preliminari. Tale comportamento ha determinato grave nocumento per l’immagine professionale del sottoscritto e dell’onorabilità della propria famiglia.”. Il 30 dicembre Forcella consegnò armi e bagattelle. Dopo sei anni fu prosciolto da tutte le accuse e decise di denunciare per calunnia i suoi accusatori. Cominciò una lotta senza esclusione di colpi, perché i pentiti sono persone credibili, protette anche quando siano state smentite. Riuscì a farli imputare di calunnia, ma alla fine le posizioni furono archiviate. Per uno di questi pentiti però vi era la prova documentale della calunnia, e allora fu perso tempo finché il reato cadde in prescrizione.

Passarono altri anni e Forcella decise di farsi indicare come testimone della difesa in un processo instaurato in Calabria, perché era in grado di dimostrare che il pentito di turno era un bugiardo. Apriti cielo, il delinquente diventò lui, ancora una volta fu iscritto nel registro degli indagati a Reggio Calabria, per presunto favoreggiamento, così il processo lo fecero a lui, ma non fu battuto e alla fine dell’iter processuale delle 103 persone arrestate ne furono condannate solo nove.

Carmine ha scritto il libro: Io non ho paura, racconti di un contadino abruzzese, nel quale raccontò che all’epoca dei fatti che tanto gli hanno nuociuto ci fu la concorrenza e la concomitanza di una serie di personaggi negativi che per cecità operativa o per carriera lo buttarono alle ortiche. Poi però, molti anni dopo, la concomitanza di una serie di fatti e personaggi positivi in parte lo hanno ripagato delle tante amarezze che ha dovuto patire. La vera riscossa iniziò con l’articolo del Corriere di Como dal titolo: Il Carabiniere che non si lasciò fregare, pubblicato il 20 novembre 2012. Poi la trasmissione di Rai2 “Presunto colpevole” andato in onda il 27 settembre successivo, la cui visione da parte del presidente della giuria del Premio Internazionale Giuseppe Sciacca convincerà quest’ultimo che nel 2014 il premio sarebbe stato assegnato al maresciallo Forcella. Quindi arrivò la comunicazione dell’assegnazione del Diploma di Merito con Medaglia per l’encomiabile servizio militare prestato per tanti anni nell’Arma dei Carabinieri, premio da ritirare in una cornice solenne nella Città del Vaticano, presso l’Aula Magna della Pontificia Università Urbaniana, sabato 8 novembre 2014.

Allora gli vennero in mente le parole del direttore del Corriere di Calabria il 27 ottobre 2014 per il prefetto reggino Domenico Salazar, che nel 1993 prese in mano il Sisde e lo riorganizzò rendendolo efficiente, il quale scrisse che la mafia stava alzando il tiro e voleva colpire in alto. Ciò in occasione della testimonianza del presidente Napolitano avanti la Corte d’Assise di Palermo avanti la quale si celebra il processo per la presunta trattativa fra Stato e mafia per far cessare le stragi. Salazar durò poco al Sisde venendo quasi subito rimosso. “Ci sono impagabili servitori dello Stato che sono “condannati” ad attendere anni prima che venga riconosciuto il valore della loro dedizione e la cifra della loro professionalità. A molti di questi la soddisfazione di vedere apprezzata la propria lineare trasparenza e la cifra del loro contributo alla sicurezza della Repubblica ed alla sua tenuta democratica, viene negata dal fato: muoiono prima.”

Successivamente Carmine ha avuto riconoscimenti continui, ma non dall’Arma. Così il 30 novembre 2014 ha preso carta e penna ed ha scritto al Comando Generale dell’Arma, precisamente al Comandante Gallitelli, in poche pagine ha sintetizzato i fatti di allora, ponendo questa domanda: “Perché ai civili non sono servite prove per schierarsi con Forcella allora come in seguito, mentre la scala gerarchica che prove di non colpevolezza le aveva, si è comportata in modo così insipiente e pilatesco? Eppure il comandante provinciale aveva detto che Forcella era il miglior investigatore della Lombardia e oltre…”. Poi un modesto riconoscimento, il 7 febbraio seguente il Generale comandante della Legione Carabinieri di Milano lo riceve ma non ha detto nulla di più e nulla di meno di quello che poteva dire. La parola “Scusa” non è venuta fuori esplicitamente ma nei fatti. Il colloquio è durato oltre un’ora in un clima cordiale ma fermo e seduti al salottino. Bevono il caffè. Forcella deve riconoscere che le istituzioni in senso lato e l’Arma dei Carabinieri in particolare non chiedono scusa. Potevano ignorarlo, ma non l’hanno fatto.

Dello stato d’animo di Carmine, della umiliazione che ingiustamente ha subito lui e la sua famiglia l’Arma non si è curata. Il mondo civile gli è stato vicino, i suoi carabinieri gli sono stati vicini e per questo ricattati e minacciati, qualcuno ha persino subito l’ostracismo sul piano dell’impiego.

Invece per loro “la pratica” non era ancora a posto, il mandato a Milano era solo esplorativo, perché il pomeriggio del 6 marzo lo chiamano dal Comando Generale per dirgli se era disposto ad andare da loro martedì 10, perchè il Generale Gaetano Maruccia comandante del 1° Reparto, cioè colui che di fatto gestisce tutta l’Arma, su incarico del Comandante Generale, voleva vederlo. Viaggio “a spese nostre e alloggerà alla foresteria del Comando Generale” gli hanno detto. Lunedì pomeriggio 9 marzo 2015 Carmine ha preso la Freccia Rossa da Milano, solo con i suoi pensieri, si sorprende di questo viaggio che di certo non aveva programmato quando ha scritto la lettera al Comando Generale e si domanda: perché gli ho scritto? Cosa vado cercando? Cosa voglio? E allora ripassa la sua vita degli ultimi 20 anni. Ripensa a come è stato impegnato a far emergere verità che nessuno delle istituzioni aveva interesse a conoscere. E quando, dopo 18 anni la lotta e’ finita, dopo essere passato ancora per le forche caudine ecco che la stampa, la televisione, il Vaticano, si accorgono di lui e gli dedicano spazio e premi. Però si rende conto che gli manca qualcosa, è l’Arma, che lo sapeva innocente, lo aveva grandemente danneggiato. Non si aspettavo niente ed invece e’ arrivato molto, qualsiasi sia l’esito di quel viaggio.

A Roma, tutti molto cordiali e soprattutto informati di tutto e su tutto, si erano guardati i filmati. Il dossier era voluminoso. L’Arma gli ha chiesto scusa, il generale Maruccia è stato di una cordialità assoluta e non di facciata, gli ha detto che non poteva rilasciargli alcuna dichiarazione attestante le scuse, che comunque non gli avrebbero restituito quello che gli era stato ingiustamente tolto oltre venti anni prima, ha convenuto che quella scala gerarchica non fu idonea in quanto impreparata a gestire l’era del pentitismo della prima metà degli anni ’90. Era stato invitato lì, accolto come si conviene ad un personaggio, quindi erano quelle le scuse che l’Arma gli faceva. D’altra parte quando le uova sono rotte non si possono ricomporre, ma limitare che si espandano troppo sporcando. Si è sentito leggero, il Maresciallo Carmine Forcella, finalmente liberato di quel peso che si era portato dentro in tutti questi anni. “Grazie Generale Maruccia, grazie Arma dei Carabinieri! Ho avuto il mio giudice a Berlino”.

(Sintesi di un testo di Carmine Forcella)