Dopo il “crollo” dello Scorciavacche 2, polemiche e buoni propositi
Print Friendly, PDF & Email

Viadotto

da: http://www.di-roma.com/index.php/costume-a-societa/item/1362-dopo-il-crollo-dello-scorciavacche-2-polemiche-e-buoni-propositi

Siamo in un paese in disfacimento, che si sfalda di giorno in giorno sia moralmente che fisicamente. Si scopre che siamo in mano a gente pericolosa e che cascano viadotti appena fatti. Come sulla Palermo-Agrigento. Aperto un fascicolo per “disastro colposo” da parte della magistratura di Termini Imerese. Ma è un problema che interessa solo il Sud Italia? Viene da pensare a grandi opere come alla Metro C di Roma, sperando che nulla del genere si replichi.

«È crollato un viadotto? Sicuramente al Sud». Questo lo scontato commento di un amico seduto accanto a me a vedere il telegiornale. Perché ormai pare che se qualcosa va male in questo paese, prima ancora di sapere dove è accaduto il fatto, si pensa al Meridione. E in effetti, il viadotto «Scorciavacche 2» appena inaugurato e subito “crollato”, si trova proprio al Sud. Anzi, al Sud del Sud: tra Palermo e Agrigento, al chilometro 238 circa dell’attuale Ss 121. Impressionano le foto arrivate nelle case, di questo manufatto in cemento armato piegato su un lato, come se ci fosse stato un terremoto di forte magnitudo. Un’opera di rilievo inaugurata circa 10 giorni fa e oggi chiusa dopo quello che in un primo tempo era stato definito “un cedimento strutturale”, poi diventato “cedimento del rilevato stradale”, come puntualizzato da “Bolognetta scpa”, il raggruppamento di imprese che ha realizzato le opere e che in Sicilia ha molti cantieri aperti, gruppo che ha già dichiarato che eseguirà il ripristino dell’opera danneggiata a proprie spese. Partito nel 2001 con una delibera del Cipe, il progetto preliminare fu approvato nel 2004 da Anas e nel 2005 arrivarono le autorizzazioni ambientali (Via) che diedero l’avvio ai cantieri. L’appalto fu vinto dalla “Bolognetta scpa”, un raggruppamento di imprese tra Cmc (Cooperativa Muratori e Cementisti) di Ravenna, Tecnis e Ccc (Consorzio Cooperative Costruzioni) di Bologna. Per la realizzazione, furono usati i cosiddetti fondi Fas (Fondi per le aree sottosviluppate) e l’offerta per l’appalto fu di 177 milioni, su una base d’asta di circa 222 milioni. Ma alla fine costerà circa 295 milioni, di cui 1,5 per il solo progetto preliminare e 13 milioni circa per il viadotto lesionato. Un viadotto aperto prima della fine dell’anno, come aveva annunciato il consorzio in una nota diffusa il 13 novembre 2014 e oggi sotto sequestro della magistratura di Termini Imerese che ha già aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di “disastro colposo”. E mentre in molti cominciano a prendere le distanze dall’accaduto, è iniziato lo scarico di responsabilità tra i vari enti e i costruttori. Ma non vogliamo approfondire più di tanto la problematica che ha interessato quel viadotto siciliano, che stando così le cose sarebbe potuto stare in Veneto come in Piemonte o Lombardia, quanto porre l’accento sulla situazione esistente in un settore, come quello delle opere pubbliche che pare abbia portato solo benefici a ben note aziende e nomi del settore. E sta bene Matteo Renzi a dire che «Il responsabile pagherà». Cosa? Come? Quando?

Se nel crollo fossero morte delle persone, chi avrebbe ripagato i familiari per quelle perdite? E se a crollare per delle analisi o progettazioni sbagliate o volutamente carenti, fossero stati manufatti patrimonio dell’umanità, come il Colosseo, ad esempio, o i Fori romani? Oppure, se crollassero o si lesionassero palazzi di civile abitazione, chi risarcirebbe, in questo paese del diritto mancato, i danneggiati?

Secondo i dati del Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio), gli investimenti nelle opere pubbliche in Italia sono passati dai 44,1 miliardi del 2004 (valori costanti 2005) ai 27,7 miliardi del 2013 (34,4 miliardi in valori correnti), con una riduzione del di oltre il 40% circa degli investimenti a fine 2014. Se da questi dati emerge la punta dell’iceberg con le recenti indagini sulla “mafia romana”, ben più corpose sono quelle più datate sulle infiltrazioni mafiose nei cantieri delle grandi opere previste nella Legge Obiettivo (Legge delega 21 dicembre 2001, n. 443): dalla Tav alla Salerno-Reggio Calabria, dalle opere del Mose, a Venezia all’Expò di Milano 2015, senza dimenticare il fantomatico Ponte sullo Stretto di Messina, che seppure mai iniziato, per la sua mancata realizzazione, potrebbe costare ben oltre un miliardo. Indagini che non solo devono far scattare un allarme generale ben più forte della task force messa in campo in camera caritatis con la lodevole ma tardiva nomina di Raffaele Cantone (che oggi pare sia stato messo tra i papabili al Quirinale, dalla Direzione distrettuale antimafia napoletana a presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione.

Si deve rivedere tutto il sistema degli appalti e il loro controllo oggettivo, perché il connubio mafie e opere pubbliche, sguazza nel mare di leggi e leggine che proliferano da sempre su questa materia che, a quanto pare, interessa mantenere nel torbido. Con una burocrazia sostanziale e formale, lasciata in mano a centri di potere locali infiltrati da politici eletti in odore di mafia, difficilmente controllabili, data la capillarità di un sistema dove il sub appalto è la regola e i consorzi tra imprese dettano legge.

Deficitano effettivamente i controlli, sia sulle vie che portano alle assegnazioni, che sulla gestione degli appalti? A vedere quanto accade da sempre nel nostro Paese, pare di sì e nonostante le approfondite e documentate inchieste giornalistiche realizzate in questi anni, dovrebbe diventare imperante la regola del ”Chi controlla il controllore?”. Altrimenti come spiegare perché la gran parte delle opere di una certa rilevanza, apparentemente a posto sulla carta, si sono poi rivelate tutt’altra cosa nei fatti, sia a livello di incremento vertiginoso dei costi, che di affidabilità. O non sono mai terminate, rimanendo monumenti a vista sullo spreco dei nostri soldi. La domanda sorge spontanea, ripensando alla “fantaprogettazione” della Metropolitana Linea C di Roma, specie nel tratto da San Giovanni a piazza Venezia, senza entrare nel merito di quello fino alla Farnesina, di cui ben poco si conosce effettivamente. A parte che se fosse realizzato, non avrebbe nessuna stazione nel centro storico, per problemi strutturali che potrebbero insorgere lungo corso Vittorio Emanuele, rendendola di fatto inutile, dato che a Ottaviano si arriva con la metro A (ammesso che si faccia funzionare decorosamente).

Perché se in questo Paese valgono le giustificazioni della ditta costruttrice (come nel caso siciliano), cioè che si sia trattato di uno smottamento del terreno accanto al viadotto e che poi ha investito l’opera, qualche dubbio viene. Un dubbio che riporta alla memoria le giustificazioni dei progettisti della diga del Vajont, dopo la tragedia che costò oltre 3.000 morti o quelle dei tecnici comunali genovesi, dopo l’ennesima alluvione e i morti causati dalla cementificazione selvaggia di fiumi e torrenti.

La natura va capita, interpretata, assecondata. Quando si realizzano delle opere infrastrutturali, vanno fatte le adeguate valutazioni geognostiche del sito, per conoscerne le caratteristiche geologiche, geotecniche e di meccanica dei terreni riguardanti in special modo le fondazioni, le costruzioni stradali o le gallerie ferroviarie. In altri termini, dati i pregressi, in questo Paese si fanno effettivamente le cose a regola d’arte?

In una nota diffusa su quanto accaduto in Sicilia dal “contraente generale”, Bolognetta scpa, si parla di «cedimento della sovrastruttura stradale riconducibile a un cedimento del terreno di fondazione del corpo stradale con innesco di uno scivolamento verso valle di parte del rilevato». Quindi, burocratese a parte, tutto nel caso siciliano sarebbe stato causato non dal cedimento della struttura o dei piloni su cui poggia, ma da quello del terrapieno accanto. Ma chi avrebbe dovuto accertarsi della natura del terreno circostante, gli automobilisti che casualmente non sono morti?

Una riflessione che ci riporta alle opere in corso a Roma e alla staticità problematica del Colosseo, con il cosiddetto “fosso di San Clemente” che ci passa sotto e che è considerato il terzo fiume di Roma. Un fiume che tutti conoscono e di cui nessuno ne parla se non in modo evanescente e di cui pare non si rilevino tracce sostanziali neanche nel progetto della Metro C, nella tratta T3, da San Giovanni a Fori Imperiali/Colosseo.

Anche nel caso romano, come in Sicilia, potrebbero essere proprio i terreni di fondazione a creare problemi insormontabili, che grazie a una probabile sottovalutazione dei pericoli, potrebbe portare a una via di non ritorno sul futuro di opere inestimabili, come denunciato a più riprese dall’architetto Paola Giannone che, a tutela dei monumenti storici “minacciati” dalla futura realizzazione dei nuovi tunnel e della stazione Fori Imperiali/Colosseo, ha inondato di petizioni popolari e appelli i massimi organi istituzionali e internazionali, oltre che l’Unesco.

Un profeta inascoltato e un critico storico del progetto (e non un “gufo”, come direbbe il premier, Renzi), è uno stimato professore universitario che risponde al nome di Antonio Tamburrino, esperto di mobilità che redasse il Piano strategico della mobilità per il comune di Roma. Professionista che ha visto bocciate tutte le sue proposte alternative e che lancia da più pulpiti, accuse su una Metro C costata, finora, più del doppio di quanto previsto per tutto il progetto completo, realizzata senza una vera discussione pubblica coi cittadini, progettata apparentemente su misura, solo per far fare cassa a gruppi di interesse politico-economico, a scapito della popolazione romana, costretta a muoversi tra voragini stradali e mezzi pubblici ridotti, da un’amministrazione comunale che, mentre annuncia l’arrivo a piazza Venezia come obiettivo minimo della Metro C, dichiara di non avere i fondi per aggiustare le strade o l’illuminazione pubblica.

Come denunciò anche a suo tempo il professore Tamburrino, la scelta progettuale per quelle gallerie di grandi dimensioni, fu fatta a suo tempo dal “tecnico indipendente” chiamato dal sindaco Rutelli, per dirimere la questione se fare una metro pesante (come fu poi fatto), o “leggera”, come proposto dallo stesso docente. Quel “tecnico indipendente” che decise le sorti delle opere, si chiamava Pietro Lunardi. Eh già, è l’ex presidente della Società Italiana Gallerie, il fondatore della Rocksoil, una società nata nel 1979 (ufficialmente proprietà della moglie) che, per l’appunto, faceva e fa gallerie. La stessa che ha vinto poi l’appalto proprio della tratta T3 della linea C (gallerie di linea e stazione Fori Imperiali), quella sotto accusa. La società di cui è oggi amministratore delegato il figlio terzogenito, Giuseppe. Quel Pietro Lunardi, ex ministro alle Infrastrutture dei governi Berlusconi II e III, che fu l’autore della Legge Obiettivo per le Grandi Opere, che regola anche il funzionamento amministrativo della Metro C.

Ma, se da un lato le accuse di conflitto di interessi mosse contro di lui in Parlamento sono state archiviate, sulla linea C della metropolitana c’è sempre un fascicolo penale pendente nella Procura romana, firmato dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, che riguarda opere fatte tra il 2005 e il 2006, con Walter Veltroni a sindaco. Un fascicolo che, come molti altri del genere in questo Paese, potrebbe finire nel nulla per prescrizione dei termini. Con buona pace di tutti i soliti amici di “bisboccia” i cui nomi sono sempre presenti ovunque e trasversalmente. Che si tratti di cooperative rosse, bianche o a pallini, oppure di noti proprietari di giornali, la spartizione degli appalti pubblici li vede sempre tutti presenti e ben attivi.

Farà bene il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, a stare con occhi e orecchie aperte, oltre che con le spalle coperte. Perché seppure oggi pare sia circondato da tanti amici che ne lodano il lavoro, lui da buon napoletano sa che “Dagli amici mi guardi Dio, che ai nemici ci penso io”.