Beniamino Andreatta
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Nel 1976 fu eletto in Parlamento nelle liste della Democrazia Cristiana. Da allora è stato sempre rieletto, prima alla Camera, poi al Senato, fino alle politiche del 1994. Ha ricoperto numerosi incarichi ministeriali di rilievo: Ministro del Tesoro tra il 1980 e il 1982 e Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, durante il primo Governo Cossiga dall’agosto 1979 all’aprile 1980 e con il primo Governo Amato dal febbraio all’aprile 1993; Ministro senza portafoglio con delega per incarichi speciali dall’aprile all’ottobre 1980; Ministro degli Affari Esteri dall’aprile 1993 all’aprile 1994; Ministro della Difesa dal maggio 1996 all’ottobre 1998; è’ stato inoltre membro di molte Commissioni parlamentari e Presidente della Commissione bilancio del Senato dal 4 agosto 1987 al 22 aprile 1992. Nel governo Spadolini fu protagonista di quella che passò alla storia come “la lite delle comari”, uno scontro con il ministro socialista delle Finanze Formica che fece cadere il governo. Richiamato ancora al Bilancio nel primo governo di Giuliano Amato, è stato ministro degli Esteri nel governo di Carlo Azeglio Ciampi dal 1993 al 1994. Il suo ultimo incarico ministeriale è stato alla Difesa, nel primo governo presieduto da Romano Prodi, nel 1996. Andreatta è stato anche europarlamentare e vice presidente del Partito Popolare Europeo dal 1984 al 1987. Fu consigliere comunale a Bologna dal 1985 al 1990, impegno per il quale ritagliava i tempi necessari, nonostante i numerosi incarichi di livello nazionale, considerando quella comunità, così piccola rispetto all’intera nazione, un tassello fondamentale del sistema Paese.

 

Nel febbraio marzo 1981 fu l’artefice dell’operazione che pose fine all’impegno della Banca d’Italia ad acquistare i Buoni del Tesoro rimasti invenduti alle aste, il cosiddetto divorzio. Fu una rivoluzione concordata tra il Ministro e l’allora Governatore della Banca d’Italia Ciampi, volta a conferire trasparenza e responsabilità alla politica di bilancio, autonomia e responsabilità alla politica monetaria. Un’altra rivoluzione silenziosa fu rappresentata dalla Tesoreria unica, ovvero l’obbligo per tutti gli enti pubblici di utilizzare per il proprio servizio di cassa i conti infruttiferi accesi presso la Banca d’Italia, sui quali venivano versati i trasferimenti statali. La Tesoreria unica fu avviata sulla base di scambi di note con la Banca d’Italia, formalizzata in seguito, nella Legge n. 720 del 29 ottobre 1984, consegnò allo Stato uno strumento di conoscenza e gestione dei flussi delle risorse, un miglior controllo sul fabbisogno del settore pubblico, un contributo al contenimento della spesa.

Andreatta contribuì anche alla liquidazione del Banco Ambrosiano, contribuì al raggiungimento di un più alto livello di trasparenza delle banche ed al miglioramento dei canoni di concorrenza ed efficienza del sistema bancario, all’allentamento dei vincoli valutari, promosse la legge per i fondi di investimento mobiliare. Fondamentale fu i suo impegno per contenimento del deficit, la riduzione dell’effetto della spesa previdenziale sul bilancio dello Stato, la disciplina del finanziamento degli enti locali, con l’introduzione del bilancio di previsione in pareggio e del tetto alle spese con eccezione della sanità. Sostenne la partecipazione dell’Italia al Sistema monetario europeo, l’emissioni di titoli della Repubblica in ECU, la ristrutturazione industriale e il credito alle imprese, avviò la Protezione Civile’ in seguito all’evento del terremoto in Irpinia.

Il 15 dicembre 1999, nel corso di una seduta parlamentare, ebbe un grave malore e finì in coma profondo come conseguenza di un’ischemia cerebrale. Da allora è vissuto in stato vegetativo, tenuto in vita dalle apparecchiature mediche. E’ morto a Bologna il 27 marzo 2007.

BENIAMINO ANDREATTA. UNA VITA CONTRO IL BERLUSCONISMO. LAICO E RELIGIOSO, ITALICO E CATTOLICO. Un “addio” di Edmondo Berselli (Da: La Repubblica, 27/03/2007)

Talvolta la vicenda di un uomo, anche se si conclude con una tragedia anticipata, con il corpo che tradisce la mente, riesce a essere esemplare. Non ideologica, perché Nino Andreatta rifuggiva dall’ideologia: ma sta di fatto che il suo tragitto intellettuale, prima di spezzarsi nell’aula della Camera il 15 dicembre 1999, sembra riassumere in sé un intero sviluppo politico. Era anticomunista nelle fibre più profonde di sé; democristiano con un disprezzo esibito delle pratiche di partito e nello stesso tempo con un orgoglio e uno spirito di appartenenza che lo inducevano a immaginare ancora soluzioni politiche, durante il disfacimento del suo partito, a oltranza, senza tregua e senza rassegnarsi, come se un’ossessione potesse placare una disperazione; e infine convinto che per una riflessione politica rigorosa, oltre che per una scelta etica irresistibile nella sua eleganza, i cattolici dovessero imboccare la via collocata a sinistra nel nascente e già problematico bipolarismo italiano. Adesso una formula sbrigativa potrebbe illustrarlo come il vero padre del Partito democratico. Non significherebbe nulla se non si avesse in mente la volontà feroce con cui aveva cercato di opporsi al tramonto della DC e dei Popolari, il sostegno scettico a Mino Martinazzoli, l’impegno da naufraghi nel Patto per l’Italia con Mario Segni. Soltanto dopo che la navicella dei centristi si era arenata, con i suoi sei milioni di voti, sull’ultima spiaggia alle elezioni del 1994, aveva compiuto la sua scelta. Uno scarto da purosangue, per lui che si era perfino candidato a sindaco di Bologna, pur di scalfire il potere comunista. Prima aveva negato la fiducia al governo di Silvio Berlusconi: «Verso questa destra ho una pregiudiziale morale»; e subito dopo si era gettato nello sforzo di evitare la «deriva plebiscitaria», il «bonapartismo», quell’ondata che stava risucchiando a destra i Popolari sotto la segreteria di Buttiglione. Come cattolico poteva sfiorare venature anticlericali, se si trattava di interpretare la laicità come un criterio che non venisse a patti con i traffici dello IOR. Come democristiano era in grado di sfoggiare pensieri giacobini, taglienti, irriducibili alle convenienze clientelari o a complicità da sottogoverno. Come uomo politico tout court, si dedicò al pensiero infinito di come riorganizzare l’alternativa a una «destra gaglioffa». Con quella stessa verve polemica che aveva praticato a usura contro il PSI di Craxi, contro «il commercialista di Bari», contro il «nazional-socialismo», Andreatta si dedicò alla ricerca di una leadership per il centrosinistra futuro, dopo il luttuoso fallimento della «gioiosa macchina da guerra» nel ‘94. La trovò in Romano Prodi, attirato verso la politica con l’ironia socratica del maestro ancora in grado di condizionare l’allievo. Ma si sbaglierebbe a pensare che l’amichevole intrigo di Andreatta avesse come traguardo una soluzione politica modesta, un accordo minore, un compromesso mediocre. Nella primavera del 1996, a un convegno a Bologna, mentre incombevano le elezioni politiche e il neoliberista Berlusconi prometteva di tagliare il peso fiscale, Andreatta fece sfoggio della sua migliore sfrontatezza sostenendo che occorreva anzi aumentarle, le tasse. Perché non accettava il liberismo dei provinciali. Aveva individuato la tendenza ancora prima del 1989 e del crollo del Muro, allorché aveva intuito che il destino del mondo senza più barriere e blocchi geopolitici era davvero in quella parola che si cominciava a usare, la «globalizzazione». Di qui il suo scetticismo verso gli europeismi retorici, nonché verso la piccola Europa bruxellese, e invece la concezione di un continente largo e aperto, capace di muoversi liberamente dentro i grandi flussi del pianeta. Si esprimeva qui il suo singolare keynesismo, un’inclinazione sociale fatta di doveri prima che di diritti, ma in cui il primo dovere era l’accettazione integrale del mercato e dei processi competitivi. E che quindi lo portava a considerare una fastidiosa stravaganza della storia la conquista del potere da parte di un monopolista come Silvio Berlusconi: «Lei chiede per sé la fiducia che si concede al cittadino comune», aveva detto il 20 maggio 1994 durante il dibattito in aula; «ma lei non è un cittadino comune, è il proprietario di una colossale concentrazione di mezzi d’informazione e di interessi economici». Aveva scelto la sinistra immaginandone un destino americano, con l’idea che le grandi convenzioni di partito e le primarie potessero restituire alla politica quella concorrenza interna che anni di «consociazionismo» (non avrebbe mai ceduto a una ovvietà propagandistica e di destra come «consociativismo»). Convinto che una traccia della Dc di De Gasperi, cattolica, liberale e soprattutto sobria, dovesse essere l’eredità degli ultimi profughi della sinistra democristiana. E che una scia della moralità comunista potesse indurre tutta la sinistra, a fare i conti con la sfida, così difficile, dell’uguaglianza in una società diseguale. In quegli anni, parlare del Partito democratico era una fantasia intellettuale. Forse, il pregio maggiore di Andreatta è consistito nel pensare che nulla fosse reale come la fantasia.

 

L’autonomia della politica monetaria Una riflessione a trent’anni dalla lettera del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi che avviò il “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia. Scarica Pdf

(Da: www.bancaditalia.it)