Note sul terrorismo rosso
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di Martin Rance ed Emanuele Rossi

Da: http://www.geocities.com/athens/olympus/1997/memhis1.htm

La nascita del terrorismo rosso si fa risalire alla decisione di alcuni militanti del Collettivo Politico Metropolitano di Milano di accelerare il processo che avrebbe dovuto portare alla rivoluzione portando lo scontro sul terreno della lotta armata: le lotte legali del movimento del ‘68 non avevano portato infatti, secondo i militanti dei gruppi terroristici, nessun cambiamentoradicale nella società italiana.
La scelta “ufficiale” del passaggio alla lotta armata fu presa dal CPM a Pecorile, presso Reggio Emilia, nell’agosto del ‘70. Il vertice di quelle che poi saranno le BR era formato da giovani di diversa provenienza culturale e sociale: c’eranostudenti di Sociologia a Trento (Curcio, Cagol, Semeria, Besuschio), ex-militanti della FGCI emiliana (Franceschini Gallinari, Ognibene), operai, provenienti soprattutto dalla Sit-Siemens (Moretti, Alunni, Bonavita). I punti di riferimento di questi terroristi erano rappresentati soprattutto dalla guerriglia urbana del Sudamerica (copie dei libri pubblcati da Feltrinelli sui Tupacamaros furono trovati in tutti i covi delle BR) e il movimento partigiano comunista, in cuivedevano il primo nucleo di lotta giovanile violenta contro l’ingiustizia. Franceschini indicherà infatti nella scelta del nome Brigate Rosse la materializzazione del “filo rosso” che li univa alla Resistenza.
Le prime azioni dei brigatisti furono mirate verso i quadri dirigenti delle fabbriche – simbolo dell’oppressione capitalista – allo scopo di attirare l’attenzione dei loro interlocutori privilegiati, gli operai; nel primo periodo si limitarono ad atti teppistici contro auto e garage:le BR non erano ancora passate seriamente all’offensiva.
Durante tutto il ‘70 si assistette alla nascita di altri due gruppi armati: i GAP ( di chiara ispirazione partigiana ) e il gruppo genoveseXXII Ottobre. I GAP, fondati e finanziati dall’editore milanese Giangiacomo Feltrinelli, che, terrorizzato da un possibile golpe della destra, voleva dare vita ad “una nuova resistenza di massa”, ebbero vita breve: Ginsborg lo liquida definendolo un gruppo esistente “più nell’immaginazione che nella realtà”. Il XXII Ottobre, protagonista di unfallito tentativo di sequestro di autofinanziamento, tornò alla ribalta quando la liberazione dei suoi componenti fu trasformata in possibile “merce di scambio” dalle BR (come vedremo in seguito).
L’ “alzo del tiro” delle BR si verificò nel marzo ‘72, quando fu sequestrato e subito rilasciato l’ingegnere della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini; pur rientrando ancora nella “strategia di fabbrica” fu l’inizio della serie di rapimenti le cui vittime venivano fotografate con cartelli con i famosi slogans “Mordi e fuggi; colpiscine uno per educarne cento”.
In questa linea non ancora di vera e propria lotta armata – Zavoli parla di “azioni propagandistiche, sebbene gravi” – si inseriscono il rapimento del sindacalista torinese Bruno Labate, del dirigente della Alfa Romeo Michele Mincuzzi, del capo personale della FIAT torinese Ettore Amerio, tutti avvenuti tra il ‘72 e il ‘73 e caratterizzati dai primi processi proletari, condotti dai rapitori in nome del “tribunale del popolo”.
Durante questa prima metà degli anni ‘70 matura la nuova strategia brigatista – “portare l’attacco al cuore dello stato” – che si tradusse in azioni contro persone delle istituzioni per colpire lo stato stesso. Il primo sequestro di questa nuova strategia fu quello del giudice Mario Sossi (18 aprile ‘74), pubblico ministero nel processo contro il XXII Ottobre, tenuto prigioniero dalle BR per trentacinque giorni e rilasciato pur senza la controparte richiesta (i militanti dello stesso XXII Ottobre). Pur se ventilata l’ipotesi dell’omicidio del “prigioniero del popolo” in caso di insuccesso, l’assassinio non era ancora stato adottato come mezzo di lotta politica; la scelta decisiva in questo senso non tardò a venire: l’ 8 giugno ‘76 fu freddato vicino casa Francesco Coco, sostituto procuratore a Genova, del “partito degli intransigenti” nel caso Sossi (cioè contro lo scambio Sossi-detenuti).
Ma tra il ‘74 e il’76 il proseguimento della lotta armata fu condizionato da due importanti avvenimenti: l’arresto di Curcio e Franceschini – grazie alle soffiate dell’infiltrato Silvano Girotto – e la successiva evasione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato. L’uso degli infiltrati fu da allora usato con successo dalle istituzioni per debellare il terrorismo, anche se nella seconda metà del decennio non sempre risulteranno chiari i ruoli che questi agenti ricoprirono (in particolar modo nel caso Moro). L’evasione di Curcio mise in risalto, inoltre, il problema della sicurezza dei penitenziari; la risposta dello Stato fu la riforma penitenziaria, l’istituzione delle carceri speciali e di massima sicurezza per i “detenuti politici” e la cosiddetta legge Reale, che assegnava alla polizia poteri eccezionali nella prevenzione al terrorismo.
Come reazione a ciò quest’ultimo intensificò il suo attacco contro le istituzioni e cominciò a porre particolare attenzione al mondo delle carceri, al quale attribuirono un notevole potenziale rivoluzionario. E’ il caso dei NAP (Nuclei Armati Proletari) nati a Napoli per “affiancare e sostenere le lotte dei detenuti”. Il 6 maggio ‘75 a Roma compirono la loro azione più clamorosa con il rapimento del magistrato Giuseppe Di Gennaro, rilasciato in cambio della trasmissione di un proclama. Dopo questo episodio i NAP furono sgominati e i superstiti confluirono nelle BR.
L’uccisione di Mara Cagol avvenuta il 5 giugno in seguito a un fallito rapimento e mai chiarita del tutto nella sua dinamica e il definitivo arresto di Curcio nel gennaio ‘76 segnarono la fine del “vertice storico” delle BR, sempre più sottoposte alla leadership di Mario Moretti.
Nel biennio 1976-77 le BR si riorganizzarono soprattutto dal punto di vista militare e attuarono negli anni ‘77-78 quella che fu poi definita la “strategia dell’annientamento” con una lunga serie di omicidi e gambizzazioni ai danni di giornalisti, amministratori locali, poliziotti, magistrati e quanti potevano essere considerati “servi dello Stato”. L’azione simbolo di questa nuova fase dell ’attività delle BR fu il rapimento, il 16 marzo del ‘78, del presidente della DC Aldo Moro e la strage della sua scorta. Forte fu l’indignazione dell’opinione pubblica; il mondo politico italiano fu spaccato in due: da una parte quelli che volevano trattare con i rapitori per la liberazione dell’ostaggio, dall’altra quelli che rifiutavano ogni patteggiamento con le BR. Prevalse la “linea della fermezza”, sostenuta dalla DC e dal PCI. Questo portò alla decisione dei brigatisti di uccidere Moro, il cui cadavere fu fatto ritrovare il 9 maggio in via Caetani, a metà strada tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. Il “caso Moro” continua a rappresentare ancora oggi uno dei più grossi misteri italiani: cosa è veramente accaduto nei 55 giorni del sequestro? Oscuro rimane per esempio il ruolo dei servizi segreti in tutta la vicenda; molte coperture, seppur non richieste, vengono fornite all’azione dei terroristi; la gran parte degli uomini scelti dal Ministro degli Interni Cossiga per formare il Comitato Tecnico Operativo risulterà iscritta alla P2; malgrado molte segnalazioni, il covo delle BR in via Gradoli non viene individuato subito; molte prove vengono fatte sparire nel nulla. Rimane poco chiara anche l’esistenza di eventuali infiltrati: i brigatisti hanno sempre negato di averne avuti, ma è indubbio che essi sono sempre stati uno strumento fondamentale nella lotta al terrorismo. Molti storici fanno risalire all’uccisione di Moro l’inizio della crisi del terrorismo; indubbiamente essa creò profondi dissensi al suo interno e un diffuso senso di ripulsa per ciò che avevano fatto al suo esterno.
All’inizio del ‘77 era nata intanto un’altra formazione terroristica, Prima Linea, che compì, fino al 1980, un numero impressionante di azioni, secondi solo alle BR: 101 attentati, con 18 morti e 23 feriti. E’ considerato per questo il più duro e concreto dei gruppiterroristici: caratterizzato da un culto esasperato dell’azione, non aveva alcun progetto politico se non la distruzione dello Stato. Secondo Bocca proprio lo spontaneismo e la mancanza di strategia causarono la sua sconfitta.
Le BR comunque non stettero a guardare. Dopo l’omicidio Moro compirono una serie impressionante di attentati: vittime furono sindacalisti, forze dell’ ordine, magistrati, giornalisti. L’omicidio del sindacalista Guido Rossa segnerà la rottura definitiva con la fabbrica: gli operai non accettarono che fosse stato colpito uno di loro. Molto scalpore destarono, tra i tanti, gli omicidi del vicepresidente del CSM Bachelet e del giornalista del “Corriere della Sera” Walter Tobagi, che pagherà l’averli definiti “non dei samurai invincibili”. L’arresto nel febbraio dell’80 del leader della colonna torinese Patrizio Peci segnerà l’inizio del fenomeno che porterà alla sconfitta delle BR: il pentitismo.
Nei primi anni ‘80 la leadership di Senzani porto all’ultimo rigurgito di violenza dei brigatisti; anchese azioni siglate BR continuarono almeno sino all’ 88,il terrorismo era ormai sconfitto. Lo stato aveva riportato una lunga serie di vittorie: arresti, pentimenti e dissociazioni permisero il completo smantellamento di quella che era stata una delle più grandi e meglio organizzate formazioni terroristiche europee e che aveva segnatouna delle pagine più buie della storia dell’Italia repubblicana.

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