Corporeità: alcune posizioni filosofiche
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(articolo pubblicato per la prima volta nel 1997 su Modem & Taboo)

Platone

 

L’antropologia greca privilegia un approccio al corporeo di tipo diadico; al corpo quale principio della materialità e localizzazione degli istinti irrazionali si contrappone l’anima quale sede dell’intelligenza. L’elemento fisico (soma), scrive Platone nel Cratilo, non é altro che il sepolcro ed il segno (sema) dell’anima. Il distacco di quest’ultima dai limiti del corpo è compito peculiare del filosofo: “se pur qualche momento di quiete ci venga dal corpo e noi cerchiamo di rivolgerci a qualche meditazione, ecco che, d’un tratto, in mezzo alle nostre ricerche e dovunque, quello viene ancora a tagliarci la strada, e ci rintrona conturba e disanimisce, sicchè insomma non è possibile per la influenza sua vedere la verità: e ci apparisce chiaro e manifesto che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua nettezza, ci bisognerà spogliarci del corpo e guardare con sola la nostra anima pura la pura realtà delle cose” (PLATONE, Fedone, 66d).
La posizione di Aristotele è analoga. Il corpo è la sede delle passioni che turbano la riflessione filosofica, la parte animale dell’uomo che condiziona e limita la razionalità quindi “bisogna far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore” (ARISTOTELE,Etica Nicomachea, K 7). Tuttavia è opportuno esplicitare il pensiero dello Stagirita, precisando che se da un lato il corpo è il sostrato, la materia dell’anima, dall’altro si presenta ricco di potenzialità nella dimensione dell’agire, e con l’attitudine a ricevere una forma, tali da poter divenire strumento dell’anima. Si realizza così l’unione di materia e forma, il sinolo.

La dignità filosofica del corpo permane negativa anche nell’ambito del pensiero cristiano; a tale riguardo ci sembra opportuno soffermare la nostra attenzione sull’opera di San Bonaventura a cui Renato Lazzarini, esponente di rilievo del Movimento di Gallarate, dedicò un’ampia monografia nel 1946. Il corpo, nella speculazione del santo dottore medioevale, è legato all’anima da una necessità né fisica né tantomeno metafisica, bensì solo di natura morale poiché ha bisogno che lo stadio animale dell’uomo sia integrato e perfezionato. Entro tale prospettiva, nonostante sia una sostanza completa, il realtà il corpo risulta un insieme di legami perfetti solo grazie al sostegno dell’anima. La fisicità umana, ad avviso di San Bonaventura, celerebbe, grazie al suo associarsi con l’anima, una inconscia tensione all’immortalità: “in conclusione, scrive Lazzarini, per Bonaventura il corpo non è nè necessario all’anima nè nemico, due tesi queste ugualmente respinte, ma solo (Sodalis) compagno dell’anima, compagno minore che si appoggia all’anima onde riceverne l’immortalità. Esso poi si ripaga il beneficio che può ricevere dall’anima offrendosi ad essa, finché è in questa vita, come suo diretto campo d’azione, e come il mediatore della sua azione nel mondo sensibile” (RENATO LAZZARINI, San Bonaventura filosofo e mistico del Cristianesimo, p. 224).

In tale modo la subordinazione dell’organizzazione biologica alla dialettica morale si manifesta nella dipendenza del corpo umano dall’arbitrio dell’anima che può tanto vivere nella giustizia che morire nella colpa. La realtà corporea, perfettibile, non é più concepita come un carcere, ma come compagna. San Bonaventura ammette la possibilità di non morire da parte del corpo umano poiché la corruzione può riguardare lo stato di animalità solo in parte ed il successivo ristabilirsi della condizione originaria impedisce il dissolvimento. La capacità di rinnovare continuamente le sorgenti della vita ogni qualvolta vengano meno consente sempre di conservare la piena vitalità. Da questo quadro di considerazioni emerge la grandezza del corpo nella riflessione bonaventuriana anche se, occorre sottolinearlo, il congiungimento all’anima è finalizzato unicamente al conseguimento dell’immortalità, all’incontro con Dio. La convergenza del mondo della natura con quello dello spirito trova qui il suo punto più alto ed il suo completamento.

Il superamento del dualismo e l’apertura di una prospettiva nuova si hanno con il pensiero di Edmund Husserl che pone alla base della sua riflessione il concetto di corporeità. Questa è la struttura mediante la quale l’io, come pura coscienza intenzionante, stabilisce in modo trascendentale esperienza dell’alterità. Nell’impostazione husserliana il corpo non è più inteso nella sua mera fisicità (K&oumlrper), un semplice correlato della natura umana, è il Leib, il corpo come condizione corporea, un divenire dell’esperienza e della natura del mondo reale, per cui l’io si percepisce come membro della “comunità monadica” (EDMUND HUSSERL,Cartesianische Meditationen, ¶ 44). La nuova prospettiva entro la quale viene situata la corporeità, pone anima e corpo quali tradizionali principi costitutivi dell’essere umano in secondo piano poichè la creatura viene intesa come una realtà polimorfa in cui materialità e spiritualità si integrano; a tale riguardo osserva Melchiorre “che ci si fermi all’appercezione del proprio corpo o che si riconosca l’umano nel corpo d’altri, si è comunque nella presenza o nel richiamo di una identità coscienziale che non ammette divisioni. Dobbiamo dunque, stabilire un nesso essenziale fra l’esperienza corporea e la struttura personale dell’uomo” (VIRGILIO MELCHIORRE, Corpo e Persona, p. 58, 1987). L’io si coglie nel proprio corpo e percepisce il proprio spazio come parte dello spazio infinito divenendo di volta in volta centro di significato, tuttavia tale attitudine intenzionale non trova la sua identità sempre nella medesima parte del corpo, ma varia di volta in volta, interessando parti diverse.

La posizione di Husserl sarebbe caratterizzata, ad avviso di Melchiorre, da una sostanziale ambiguità, infatti, ciò che viene percepito, se da un lato costituisce il punto focale della nostra prospettiva, dall’altro non può essere visto da altri lati che possono essere colti solo con un mutamento di prospettiva che sposti il focusprecedente. La realtà ha due facce, il visto ed il non visto, non nettamente separate, ma sfumate e dalle carenze delle nostre percezioni nasce il bisogno di nuove prospettive dando luogo ad un processo infinito che testimonia il sogno di un punto di vista universale. Ciò equivale a dire, ancora una volta, che “così, ciò che della cosa si manifesta, si manifesta ad un tempo come il non tutto della cosa, come ciò che non si esaurisce nel suo esserci: solo quando la cosa fosse percorsa in tutti i suoi lati e le sue relazioni, solo allora essa ci sarebbe data pienamente, completamente. Ciò che si dà come incompleto alla visione, si manifesta dunque come tale solo in quanto indica una sua ulteriorità d’essere ed un suo nesso con l’intero” (VIRGILIO MELCHIORRE, Corpo e Persona, p. 69, 1987). Una volta messo a fuoco questo punto essenziale, risulta chiaro che ad una mutamento della prospettiva nello spazio e nel tempo corrisponde una diversa percezione dell’orizzonte della totalità; in altre parole la totalità può essere intesa solo in senso formale, come insieme di tutte le possibili totalità.

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