Perché in Italia non esiste un’elite nazionale
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(Martino Solari, 2023 ©)

Alla fine della lettura del saggio di Vassallo e Vignati, Fratelli di Giorgia, edizioni il Mulino, rimane il grande interrogativo che non solo è direttamente connesso alla storia del fascismo italiano, del Msi e del neofascismo occidentale in generale e di conseguenza a quella del Comunismo internazionale, ma anche alla nostra storia nazionale italiana; per quale motivo non solo non abbiamo ancora oggi, a Roma, una elite pedagogica nazionalista integrale, differentemente dalle nazioni più evolute e civili, ma siamo di contro guidati, come italiani, da uno Stato profondo le cui tendenze dominanti sono chiaramente globaliste (universaliste astratte) e, come sosteneva un pensatore di certo non filomissino come Augusto Del Noce, “cattolico-comuniste”? Sergio Romano, in un fondamentale  saggio pubblicato nel 2011 in occasione della storica ricorrenza dell’Unità, Finis Italiae, ebbe a rilevare che il 1976 sarebbe stata la data di morte dell’Ideologia Risorgimentale, l’anno in cui circa il 75% degli italiani dette il proprio consenso esplicito a Democrazia cristiana e Partito Comunista, convinti rappresentanti di due Ideologie Universaliste e transnazionali, mentre solo il 6,1 % degli italiani era rappresentato dal Movimento sociale italiano, l’unica formazione politica che convintamente, e non strumentalmente, si dichiarava depositaria dell’identità risorgimentale mazziniana e dell’identitarismo nazionale. Nel 1976 dunque gli italiani risorgimentali sarebbero già stati, in Italia, una minoranza nella minoranza. Finito il bipolarismo, un comunista di radice togliattiana come Luciano Violante tentava intelligentemente di ridare vita all’originario impulso risorgimentale con la ammirevole proposta di una concordia nazionale, ma l’esperimento di Gianfranco Fini e della Alleanza Nazionale finiva per spostare a sinistra le stesse posizioni di coloro che avrebbero dovuto, secondo Vassallo e Vignati, rappresentare la “seconda generazione della fiamma”, facendo naufragare ogni proposta concordataria e rafforzando in ogni modo il già influentissimo antifascismo globalista. In questo senso, se si volesse trovare un punto debole nel saggio pubblicato dalle edizioni il Mulino è proprio nel tentativo di inquadrare il partito di Giorgia Meloni all’interno della categoria politologica del “nazionalismo antiglobalista”, in una presunta continuità con “la prima generazione della fiamma”, quella di Giorgio Almirante.

Msi come avanguardia strategica dell’anticomunismo mondiale

Gregorio Sorgonà, valido e serio ricercatore antifascista, ben ha messo in rilievo nei suoi molteplici studi sul neofascismo almirantiano, come non sia possibile comprendere la natura di questo neofascismo italiano senza avvalersi degli studi filosofici di Ernst Nolte sulla guerra civile ideologica globale del secolo passato. Il ‘900 sarebbe stato caratterizzato non tanto dallo scontro tra superpotenze geomilitari, quanto dal conflitto di faglia ideologico tra i partigiani universalisti del Comunismo e quelli tellurici della Nazione. Il partigiano, “nazionalfascista” o universalista Comunista, sarebbe stato per Nolte, come del resto per Schmitt, la autentica ultima sentinella della terra. Fu Mussolini, per Nolte, la figura più importante e significativa del Novecento in quanto con la controinsurrezione AntiBolscevica dell’ottobre ’22 avrebbe saputo dare scacco alla Rivoluzione mondiale bolscevica che pareva definitivamente inscritta nello spirito del tempo, salvando così moltissime nazioni del mondo dal contagio del virus espansionista marxista-leninista. Lo spirito mussoliniano, per il Nolte, fu animato dallo sforzo volitivo di estrema resistenza contro la trascendenza pratica e di lotta culturale controegemonica rispetto alla trascendenza teorica e ciò avrebbe significato, storicisticamente, la possibilità ideologica dei nazionalismi storici nel non cedere il passo all’universalismo astratto leninista o dem wilsoniano. Questo processo nazionalista antimperialista e antimarxista mussoliniano avrebbe finito per aprire il ciclo della lunga guerra civile ideologica novecentesca. Se il 1945 avrebbe segnato il trionfo della più radicalista e “apocalittica” tra le varie forme di trascendenza, quella che Nolte definiva “l’ambivalente messianismo giudaico” nella forma comunista estremista sovietica e in quella socialista occidentale ( Cfr. Geschichtsdenken im 20. Jahrhundert, Berlino 1991), l’anima delle nazioni e gli spiriti identitari dei nuovi nazionalisti antimperialisti post-1945 si sarebbero velocemente risvegliati anche nel quadro bipolare di Yalta al punto che sia il maccartismo che il nixonismo che il reaganismo negli Stati Uniti avrebbero continuato, con altri mezzi, la stessa lotta fascista contro l’universalismo bolscevico/wilsoniana e contro la trascendenza (Cfr. Sinistra e Destra, Storia e attualità di un’alternativa politica, Roma 1997). Integrando il fascismo nella logica immanente e anti-trascendente dello spirito nazionale mediterraneo di resistenza all’astratto universalismo dissolvitore, sulla linea di Garibaldi/Mazzini, Corradini, Gentile/Rocco, il Msi sapeva quindi leggere correttamente il fenomeno della guerra civile mondiale novecentesca, interpretando lo stesso Neo-Atlantismo teorizzato dal notevole patriota e statista Giuseppe Pella nel 1957 non come una subalternità europea-atlantista ma come un nazionalismo mediterraneo strategico tatticamente più affine agli Stati Uniti che all’europeismo anti-italiano. L’Eurodestra almirantiana nacque esclusivamente, come noto, in antagonismo all’eurocomunismo, Almirante non fu mai un paneuropeista. Non a caso il Msi fu l’unica formazione politica derivante dalla Prima Repubblica che sapeva coraggiosamente battersi contro la ratifica di Maastricht, avendo sempre posto alla base del proprio operare il programma della pedagogia risorgimentale e neo-risorgimentale custodita dal fascismo, come sia G. Volpe sia F. Chabod riconoscevano, per quanto con un differente giudizio di valore e con un diverso metro storiografico. Non dovrebbe inoltre sfuggire che in piena guerra fredda i maggiori dirigenti nazionali del Msi, per quanto Almirante fosse l’unico politico italiano attivo sulla linea della “Lega AntiComunista Mondiale” di Taiwan, riconoscevano in Mao il probabile più grande leader strategico del ‘900, vedendo nella rivoluzione maoista una manifestazione del tradizionale nazionalismo cinese che sapeva insorgere anzitutto contro l’universalismo astratto stalinista e leninista, mentre le armate del Kuomintang che si rifugiavano a Taipei mantenevano sino alla fine della guerra civile sinica significative relazioni strategiche con il Cremlino di Stalin. Dopo la morte di Mao, nel settembre ’76, era addirittura l’esponente della linea più conservatrice e tradizionalistica del Msi, Pino Romualdi, a fare l’apologia di Mao nel quotidiano missino “Secolo d’Italia”, rappresentandolo tra le righe come il continuatore asiatico della linea mussoliniana della prima metà del secolo. Il Piccolo Timoniere di Pechino, un nazionalista han anti-materialista e in fondo nemico strategico del marxismo-leninismo, nella visione del Msi non avrebbe fatto altro che combattere tutta la vita per ridare alla Cina nazionale il suo naturale e legittimo posto al sole. Mao, non a caso, sostenne in tutti i modi sia il regime nazionalista argentino peronista che quello spagnolo franchista, sia quello portoghese salazarista che quello cileno del generale Pinochet, contro l’Imperialismo marxista e neostalinista considerato il nemico strategico di Pechino. Il giorno del golpe cileno,11 settembre 1973, l’ambasciata cinese di Santiago esponeva la bandiera cilena in segno di solidarietà nazionale per la sconfitta politica di quello che lo stesso Mao aveva definito “un pericoloso agente dell’Imperialismo sovietico-cubano”: Salvator Allende.   

Fratelli d’Italia ovvero l’assenza della pedagogia nazionale

Diversamente dalla “prima generazione della fiamma” di radice almirantiana, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni non paiono affatto porsi come la linea strategica più avanzata dell’attuale nazionalismo mediterraneo anti-globalista; per quanto la leader romana intenda riferirsi a un tale “modello polacco” come linea esemplare per l’intero occidente, il suo partito non sta affatto fornendo la linea del nazionalismo civico e politico, con massicce e legittime dosi di anticomunismo e antiglobalismo, a differenza del partito e del fronte di Mateus Morawiecki egemone a Varsavia. In Polonia, non a caso, comunismo, pedagogia comunista, apologia neoglobalista dei massacri bolscevichi e comunisti di milioni e milioni di contadini sterminati sono rigorosamente vietati su base penale e, al tempo stesso, la pedagogia nazionale è devotamente insegnata e studiata a vantaggio delle nuove generazioni. Negli ultimi mesi, non solo la Giorgia Meloni ma un po’ tutti i maggiori dirigenti del suo partito hanno continuamente fatto riferimento a questa Polonia nazionalista e anticomunista come baluardo dei più autentici valori occidentali e europei, di contro i primi mesi di presidenza del consiglio targati Fdi non hanno affatto dato prova di ciò. Va in effetti sottolineata la storica visita strategica nella New Dehli del nazionalista antimperialista Narendra Modi; visita che si è effettivamente posta, dopo molti decenni, in notevole e sorprendente continuità con quanto avveniva a Roma negli anni Trenta, con il concetto di Mare Nostrum mediterraneo che si dovrebbe proiettare sino all’Indo-Pacifico; come va sottolineata la coraggiosa intelligenza tattica di Meloni nel vedere in Taipei il fronte mondiale più avanzato del nazionalismo integrale, oltre la astratta retorica bidenita e dem su “democrazia e autocrazia”. Ma in linea generale Fdi non pare aver alcuna consapevolezza che occorrerebbe all’Italia, per non perire definitivamente, un modello forte ideocratico, ben più che neo-istituzionale, di pedagogia neo-risorgimentale che sappia proteggerci strategicamente ed identitariamente dal neo-egemonismo mondiale marxista di Pechino fondato sulla “guerra liminale”, sullo Stato di Sorveglianza totale neo-comunista e dal sub-imperialismo di sinistra radicale, agganciato sempre a Pechino, di Davos e dei franco-tedeschi. Tutto questo anche in virtù del fatto che gli stessi Stati Uniti, nonostante i forti legami finanziari e politici tra la famiglia Biden, Davos e la Cina Marxista-Leninista, hanno nel febbraio 2023 approvato con un Congresso schierato in senso bipartisan la risoluzione che noltianamente rappresenta Socialismo e Comunismo come l’ ideologia più violenta, oppressiva e totalitaria della storia. Questo è dovuto senza meno alla rivoluzione nazionale antimperialista partita negli States nel 2016 – America First e Maga –  la quale ha finito lo stesso per espandersi a livello globale arrestando sensibilmente l’universalismo astratto e la globalizzazione di Pechino e dems. In definitiva, se gli almirantiani seppero leggere con precisione l’essenza transpolitica e sostanziale del ‘900, questo non sembra almeno per ora potersi dire di Giorgia Meloni e dei suoi “colonnelli”, dato che non paiono avere la visione strategica, civica e pedagogica, di un Modi o di un Trump, che si sono potuti affermare, pur nel quadro di democrazie nazionali militari non liberali quali sono quella indiana e americana, grazie alla presenza di sperimentate elite nazionaliste integrali e concretamente anticomuniste che hanno ben presente la nuova lotta del secolo, segnata, proprio come spiegò S. Huntington in tempi non sospetti, dalla nuova linea mondiale del Clash of Civilizations.